DOLCEAMARO. Poesie, Racconti e Saggi di Carlo Amico

2“Dolceamaro”, il libro postumo di poesie e scritti di Carlo Amico, è stata la prima realizzazione editoriale curata in questo 2014 dalla nostra associazione. La vicenda è ormai nota, specie dopo la presentazione dell’opera avvenuta il 29 dicembre al Teatro Turoldo di Taranto, città natale di Carlo,  e dopo vari articoli di stampa che hanno reso pubblica la storia di questo autore e dei suoi scritti.

Il 13 novembre 2012 Carlo Amico, laureando in filosofia all’università di Lecce, viene a mancare. I genitori raccolgono i suoi scritti, per lo più poesie, redatte su un quaderno. I versi sono scritti quasi sempre senza cancellature, di getto, con minime correzioni. La lettura dei suoi componimenti risulta sorprendente, diviene una sorta di enigma, un percorso profondo e interiore, silenzioso, che col tempo induce i genitori a condividere riservatamente questi preziosi componimenti con pochi intimi.

E’ casuale l’incontro con la nostra associazione Geophonìe. Ricevuto il manoscritto, Giuseppe Basile e Concetta Ingrosso avvertono una sensazione di disagio e d’insicurezza, lasciano emergere dubbi sulla fattibilità di una pubblicazione affidata ad un’associazione (Geophonìe) di natura amatoriale e non professionale: sospettano di maneggiare un’opera di particolare valore, tanto da suggerire di sottoporla ad altri per un giudizio e una valutazione più tecnica.

1525755_10202878902443365_1025689651_nA interessarsi degli scritti di Carlo è Mario Desiati (scrittore, poeta e giornalista pugliese, collaboratore di Mondadori, Fandango Editore, L’Unità  e Repubblica, finalista al Premio Strega nel 2011, autore di recenti romanzi di assoluto successo), il quale scrive a caldo le sue impressioni ai genitori, svelando, con la tipica sensibilità e competenza di chi sa, i reali valori dei testi, analizzandone i significati, cogliendone appieno, e complessivamente, il senso.

Da quel momento, consapevoli dell’unicità dell’opera, si può decidere di farne l’uso più opportuno, di portarla alla luce nel modo adeguato, consono e rispettoso del suo pregio. Geophonìe, in questo, non sembra la soluzione ottimale, per la sua natura non commerciale, per la sua struttura non specificamente “editoriale”, in senso stretto.

Ma Vincenzo Amico e Mariella Semeraro decidono ugualmente di affidare alla nostra associazione la produzione e la pubblicazione. Il libro viene elaborato graficamente e stampato a Modena, presso Grafica Studio, dagli esperti Maurizio Ferretti  e Tania Toma.

Il 29 dicembre 2013, a Taranto, in un teatro gremito, Dolceamaro  vede la sua prima divulgazione. Realizzato a cura dei genitori di Carlo, interamente da loro finanziato, e gratuitamente distribuito, “Dolceamaro” è stato immediatamente apprezzato e amato dalla comunità locale che si è interessata alla sua storia.

Foto Amnesty 25.04Carlo Amico era stato sostenitore di Amnesty International e i suoi pensieri universali, le sue parole profonde, hanno trovato ampia eco e risonanza anche in occasione della 29° Assemblea Nazionale dell’Istituzione tenutasi a Bari lo scorso 25 aprile, ove alcuni dei suoi vertiginosi versi sono stati letti pubblicamente.

E’ inutile rimarcare che da tale fortuito incontro (tra Geophonìe e la famiglia di Carlo) si sono impressi in noi segni profondi: merito delle parole di Carlo, e di questa realizzazione editoriale che ci ha unito,  per la quale andiamo orgogliosi.

Giuseppe Basile © Geophonìe
Diritti Riservati

 

DOLCEAMARO: IL LIBRO

IL SOLCO ROVENTE DI UNA GENERAZIONE. Piccoli appunti sugli scritti di Carlo Amico

Di Mario Desiati

Mario Desiati presenta "Dolceamaro", Teatro P.Turoldo 29.12.2013

Mario Desiati presenta a Taranto “Dolceamaro”, Teatro P.Turoldo 29.12.2013

C’era una volta, un ragazzo. Jack era il suo nome; un nome come tanti penserete. Ma lui non era come tanti, o no. Era diverso da chiunque conoscesse, forse addirittura da chiunque altro abitasse sulla Terra. Perché mai direte voi: forse per via del carattere, o del fisico. E poi come fa una persona a essere radicalmente diversa? Lo è nell’anima: in questo caso nelle anime. Perché in Jack vivevano due anime, due lati completamente distinti…

In questo incipit del primo racconto che apre la sezione centrale della raccolta che state per leggere, ho provato a sostituire il nome Jack con quello di Carlo e ho forse capito solo allora quanto vario e potente fosse questo libro. Quante anime contenesse il volume e anche il suo autore.

Un pomeriggio d’estate entrò nella mia vita la scrittura di Carlo Amico. Fui contattato dalla madre Mariella che in una gentile e asciutta mail mi donava l’onore di leggere gli inediti del figlio scomparso lo scorso novembre.

Nelle righe che seguono ho provato a ripercorrere alcuni punti salienti della produzione letteraria di Carlo Amico. Per farlo mi sono lasciato guidare dall’emozione, soprattutto nella parte filosofica dove non ho le necessarie competenze per poter esprimere un adeguato parere sul valore degli scritti, posso però con certezza condividere con chi si incamminerà nelle pagine che seguono, delle piccole illuminazioni che ci fanno arrivare quanto a meno a sfiorare alcune delle mille anime del suo autore.

Quanto alla poesia e al racconto, leggendo il file degli scritti ho scoperto la voce di uno scrittore vero, e se dovessi inserirlo in uno schema direi che si tratta di quella linea letteraria pugliese che da trent’anni ahimè caratterizza alcune delle nostre voci più potenti. Quella che chiamo “I sentieri interrotti”: comincia da Stefano Coppola, passando per Salvatore Toma, Antonio Verri, Claudia Ruggieri e arriva a comprendere oggi anche la voce di Carlo Amico. Autori che non hanno avuto modo di esprimersi nelle loro massime potenzialità, ma che nella loro giovinezza prima di essere colti dalla morte prematura hanno mostrato un sintomo di grandezza.

Grazie alla scrittura i poeti continuano a vivere anche quando non ci sono più. È una delle regole auree, una massima che aleggia dentro l’uomo che spesso nei maggiori momenti di conflitto e attrito affida al simbolo il segno di un messaggio…

Se dovessi giocare con un luogo comune che indica i poeti con l’anima candida dei bambini e i filosofi con l’anima temprata dei vecchi, affiderei a Carlo Amico il riassunto di questa massima. Carlo Amico è andato via a vent’anni, ma aveva nel cuore due spiriti, l’innocenza di un bambino “che chiede cos’è la guerra” e la saggezza di un anziano barbuto che ascolta i suoi simili nell’agorà.

Esemplare nel senso di tale dualismo i versi che seguono: i bambini la sanno più lunga,/sanno che Babbo Natale non si vede/perché non c’è, o almeno lo sapranno./E poi che furbizia è mai questa?!/Se si vive di menzogne, vanno credute vere!/Son d’accordo con voi: si vive meglio/con l’aiuto di sogni e fantasie,/salvano dalla pazzia della ragione./Ma non è peggiore la malattia/di chi è sveglio e procede nel buio/per fingere la notte?

Gli scritti di Carlo Amico si articolano in due parti che rappresentano la personalità intellettuale dell’autore che andava facendosi. Il poeta-narratore e il saggista. Nella parte poetica si mostra la voce più malinconica, echi romantici e un lirismo che si mischia con una tensione narrativa come parte della poesia dei trentenni di oggi quali Massimo Fantuzzi, Gilda Policastro o certe prove di Marco Giovenale.

Estendo qui di seguito una poesia piuttosto significativa per dimostrare il lavoro di Carlo Amico orientato a dare nella poesia più narrazione possibile.

Per coloro che aspettano nella pioggia,
la propria ragazza venire;
per le donne che sopportano ogni cosa,
solo per essere chiamate “mamma”;
per il bambino che guarda lo schermo
e chiede: «cos’è la guerra?»
per due amici che litigano in macchina,
che sanno quanto poco durerà la tempesta;
per colei che sogna e piange,
aggrappata a poche strofe;
per colui che, parlando al suo cuore,
contro la moda, legge e scrive d’amore;
per tutti questi è il mondo, la vita
per chi durante il temporale vede solo le stelle
giocare a nascondino.

Il processo metrico di questi è oscillante, c’è una scelta precisa, Amico alterna dodecasillabi a ottonari, tranne alla fine quando la sua tensione narrativa diviene evidente. Ho scelto questa poesia perché oltre a compiere apertamente alcune sperimentazioni stilistiche, l’anafora “per”, le allitterazioni, una messe di doppie t che rende la lettura ad alta voce volutamente dura, dalla musicalità aspra.

Eppure Amico ha una vena lirica e dolce che nei frammenti narrativi presenti in questa raccolta viene fuori in modo limpido.
C’è un pezzo che fa tremare il cuore ed è tratto dal racconto “Ultimo viaggio”.

Le ore trascorrono lente e tranquille, camminando in mezzo alla natura. Gli alberi larghi e frondosi, le piante e i fiori odorosi di una nuova primavera e persino il ronzio laborioso degli insetti accolgono il forestiero nel loro regno. Jean si inoltrava in questa festa di colori e rumori soffusi, aspirando a farne parte. «È come toccare la libertà, ne sento persino il profumo: qui non esistono leggi, né follia: esiste solo il rispetto, un sottile gioco di vita e di morte che sopprime qualcuno, è vero, ma permette la felicità di tutti. Una società inconsapevole, viva senza bisogno di sapere perché». Benché non fossero altro che pensieri, Jean ebbe l’impressione che le sue parole avessero pervaso ogni resina, ogni foglia bagnata dalla rugiada, ogni filo d’erba asciugato dal sole, colpendone il cuore più intimo. Era il paradiso, ma anche questo ha le sue regole: il sentiero si fece sempre più angusto e impraticabile, obbligando Jean a usare tutte le sue forze e una certa parte di violenza per poter proseguire. A mezzodì, sbucò in una valle rigogliosa attraversata da un fiume, le cui acque sembravano aver strappato il colore agli zaffiri più puri. Poche decine di case in pietra viva risaltavano fra la natura lussureggiante: per quanto piccola, la presenza umana disturbava l’armonia.

Jean potrebbe essere uno degli alter ego dell’autore. Il protagonista del racconto ha trascorso una vita in serrato dialogo con padre Alfred, un sacerdote che ha un rapporto tormentato con la teologia e la pedagogia, ma ne espone i principi. In lui cerca, ma non trova il padre spirituale che lo possa guidare ad alcuni segreti della vita. La filosofia gli spalanca dei mondi nuovi (e sulla parola mondi nella partitura di Amico ci tornerò avanti). Il suo compagno di avventure e speculazioni è Massimo e a lui confida la necessità di un viaggio; bellissima la risposta di Massimo alla raccomandazione di Jean di non mettersi nei pasticci. “E tu invece vedi di cacciarti nei guai.”

I guai.

Perché il posto di Jean è nel vortice della vita, al centro troverà quella foresta che nasconde la valle rigogliosa attraversata da un fiume le cui acque hanno il colore degli zaffiri. La pace e le serenità dell’acqua, la terra, la natura è il sentimento della grazia che mette ordine alla potenza del fuoco solare che ha guidato il cammino di Jean nell’intricata foresta fatta dalle sue parole.

“Stare al mondo” è una delle ossessioni di Amico ed è in questo racconto che si nasconde una chiave segreta per poterlo spiare da uno spiraglio, più avanti infatti scrive ne “Il libro chiuso”: la filosofia, e la cultura umanistica nel suo insieme, ha il compito di educare la società proponendole strade sempre coerenti e sempre nuove per permetterle il suo ultimo scopo: sentirsi a casa nel mondo.

E il mondo di Amico era continuamente innamorarsi delle cose più semplici, a cominciare dai valori che ne facevano un uomo impegnato nella società civile, lui candidamente ammette: Per coloro che aspettano nella pioggia,/ la propria ragazza venire;/ per le donne che sopportano ogni cosa,/ solo per essere chiamate “mamma”;/ per il bambino che/ guarda lo schermo/ e chiede: «cos’è la guerra?»… ho immaginato Carlo quel bambino che guarda lo schermo e chiede cos’è la guerra, e che col tempo ha tenuto quell’atteggiamento autentico e schietto, come quello che hanno i bambini.

In questo tempo di alluminio e falsità,/marciamo come bambini,/aggrappati a colonne, fredde – scrive l’autore, in una poesia senza titolo che inizia con proprio questi versi. Ecco un frammento dell’anima pura dietro i testi raccolti in questo libro, l’anima pura è quella dei ragazzini che vedono nelle cose sempre un mondo ulteriore, che sanno dare peso al simbolo, ma soprattutto che hanno le pagine bianche dell’innocenza.

L’innocenza è la virtù della poesia, guardare le cose con l’energia dell’infanzia, con la visionarietà che si ha da bambini, dare alle cose che appaiono un tratto simbolico, andare oltre l’apparenza. Un vero poeta è un bambino dentro, ma anche un vecchio signore che sa come mantenere il contegno, non scomporsi e vivere l’inferno dentro come al termine della poesia “Epitaffio per un filosofo” scrive: Voi che avete da vivere,/ ascoltate il consiglio di un vecchio:/ vivete e godete, amate il prossimo e il mondo,/e avrete fra le mani la profonda ragione dell’Essere.

 Nella parte più romantica, Amico diviene nostalgico, a volte brillante e sentenzioso come in questo verso secco che si apre all’ipotesi di un amore che ha a sempre a che vedere con la propria più intima eccezionalità: ti amo, perché sei ciò che non sono…

Questo verso mi ha commosso e credo commuova chiunque perché parla di un suo amore e universalmente dei nostri amori. Non c’è dubbio che qui centri l’insegnamento platonico, nessuno capirà cos’è la filosofia se non parte dall’amore.

Ma l’amore che presuppone quel verso, è un amore non identitario, è l’amore. Ciò che è diverso è uno scambio e una crescita. È un’idea che si avvicina ad alcune teorie lacaniane come quelle di Badiou che contesta la logica dell’identità, l’amore è minacciato per definizione, poiché si mettono in questione la sua inclinazione per la differenza, la sua dimensione asociale, il suo lato indomito, persino violento. La ricerca di un amante simile a noi. E ribaltando al contrario il verso di Carlo Amico, innamorarsi dell’altro in quanto simile a noi. Tralasciando la deriva narcisista di un simile comportamento, si tratterebbe di un amore arido, senza prospetto. E invece Amico è in un solco opposto, come quello di Badiou che nell’Elogio dell’Amore scrive: “E si farà propaganda a favore di un “amore” in tutta sicurezza, perfettamente in linea con le altre pratiche secu-ritarie. Di conseguenza, difendere l’amore in ciò che ha di trasgressivo ed eterogeneo rispetto alla legge è un compito molto attuale. Nell’amore, come minimo, ci si affida alla differenza anziché sospettarne. La reazione, infatti, impone sempre di diffidare della differenza a favore dell’identità: è la sua massima generale. Se invece vogliamo aprirci alla differenza e a ciò che essa implica, ovvero a che il collettivo sia capace di estendersi al mondo intero, una delle esperienze individuali praticabili è la difesa dell’amore: al culto identita-rio della ripetizione è necessario contrapporre l’amore per ciò che è diverso, unico, per ciò che non ripete nulla, che è erratico e straniero. Nel 1982 scrivevo in Théorie du sujet: «Amate ciò che non vedrete mai due volte».”

Nel libro di Amico aleggia l’inquietudine, a volte il pessimismo e la rabbia, ma una rabbia pericolosa solo per se stessi che non farà mai male a nessuno. Per esempio quando nel libro sembra raccogliere in una strofa la tragica profezia che vuole avverarsi, ma viene fatto con una semplice e sottile evocazione, senza esplicitare il male di vivere:  È ora di andare, lo dico da tempo./Imbocco nuove strade,/incontro anime sempre diverse,/sullo sfondo paesaggi mai visti.

Sulla parte filosofica e marziale del libro andrebbe detto che si manifesta un pensiero filosofico che a una prima definizione potrebbe evocare il pensiero di Carlo Michelstaedter e per le stesse ragioni, con eguale rovello, si libera il potenziale di tragicità dell’esistenza, attraverso violente contrapposizioni concettuali (nell’unica opera di Michelstaedter era sin dal titolo questo dualismo: “persuasione-rettorica.”)

copertina retro bianco e neroIn uno dei suoi microsaggi Amico scrive: un incontro tra due personalità è sempre uno “scontro”, nel senso che non possono mai comunicare direttamente, ma attraverso dei filtri quali il linguaggio verbale e non verbale, i quali a loro volta contengono schemi concettuali e ideologici che fungono anche loro da “lenti” per la comunicazione. Per quanto tutto ciò possa apparire scontato, le conseguenze logiche non lo sono affatto.

All’interno della parte filosofica del libro si trovano riflessioni e ragionamenti che vista la giovane età del suo autore , sono ancora in fieri, scrive lui stesso a proposito: Queste pagine racchiudono ragionamenti, non lezioni. Centinaia di avvenimenti, esperienze, incontri e scontri mi hanno portato, oltre che qualche notte insonne, anche riflessioni e pensieri sul mondo, sulle persone, semplicemente su ciò che di volta in volta mi capitava. Pensieri che ora, con fatica, trascrivo…

Eppure ci sono tracce importanti di originalità come la riflessione sulla libertà di pensiero e la libertà d’azione. Carlo Amico parte dal presupposto che la libertà d’azione non potrà mai essere assoluta, proprio perché recintata da ostacoli fisici, “non è possibile compiere 2000 chilometri a piedi in 20 minuti”, scrive. Ma anche la libertà di pensiero ha i suoi confini ed è condizionata dalla memoria, le reazioni ai fenomeni della vita e le sue scoperte.

Carlo Amico è un solco infuocato nel cuore della sua generazione, nelle sue parole c’è disagio e profondità, conflitto e poesia, ma anche una speranza insondabile nei confronti della bellezza e della scrittura che arde come lui racconta in questi bellissimi versi:

Ancora brucio, brucio,
come un incendio nella notte più buia;
vado a fuoco, mi convinco che non è così.
Ma non è fumo,
è il profumo più dolce, dimentico tutto;
non sono più, non amo, non soffro.
Non so. È un attimo.

POST – LETTERATURE

Il pensiero in nuove forme. Viaggio nel mondo dei “Post”,  frontiera neo-espressionista della comunicazione. Tra la banalità e la dignità del nuovo genere letterario.

Sono i mezzi, i supporti, le risorse, a dettare le regole del nostro comunicare?
Ora, senz’altro, meno che in passato.
La carenza di mezzi nel mondo del neolitico doveva essere condizionante oltre ogni nostra attuale immaginazione. Scrivere, dipingere, rappresentare, erano attività che potevano realizzarsi unicamente con i tempi e le forme primitive dei graffiti.
L’urgenza comunicativa era spirituale o propiziatoria: ci si prodigava ad incidere scene di caccia e di danza, figure di guerrieri e di animali, oggetti, utensili e simboli. Ci sarà anche stata, accanto a quelle esigenze esoteriche, qualche altra forma più banale di urgenza espressiva, ludica, disimpegnata, ma ugualmente condizionata dalla difficoltà dell’uso di un mezzo, l’incisione, di sicuro ostacolo all’immediatezza. Quando un mezzo espressivo è di difficile utilizzo e richiede risorse non sempre disponibili o accessibili, s’impone una selezione, una scelta prioritaria tra i contenuti che si vogliono esprimere e rappresentare.
Oggi la Rosa Camuna, simbolo della civiltà rupestre del neolitico in Valcamonica, è l’emblema della Regione Lombardia e i graffiti vengono riproposti in spettacolari mostre multimediali. Ma tanta altra arte spontanea non ha goduto di un destino altrettanto benigno. La maggior parte dell’espressione umana, sino ad oggi, è stata naturalmente, ineluttabilmente cancellata dal tempo.
Questo vale, ovviamente, per tutte le epoche, e tutte le forme di espressione e comunicazione.
I condizionamenti e le limitazioni espressive imposte dai supporti, dai papiri egizi alla pietra della colonna Traiana; dalle incisioni testuali sul ferro fino alla stessa stampa; o i condizionamenti determinati dagli spazi utilizzabili, dal supporto fonografico di quarantacinque minuti, alle pareti urbane rivestite di mosaici (ieri) o di murales (oggi), in passato sono assurti a “misura” dell’arte e dell’espressione.
La comunicazione telegrafica, la lettera confidenziale, la modalità di comunicazione verbale di uno scambio di pensieri telefonico, la struttura di un palinsesto televisivo con i suoi spazi prefissati, sono state – diciamo un’ovvietà – espressione di un pensiero umano “ristretto”, conformato dal mezzo, dal supporto.

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La Rosa Camuna, simbolo della civiltà rupestre dei Camuni

Incisioni rupestri nella Val Camonica (1000 a.C.)

E’ sotto gli occhi di tutti, allora, la fortuna di questa nuova attuale umanità, praticamente onnipotente nell’attività comunicativa. Non esistono più spazi entro cui comprimere il pensiero che si intende diffondere, non esistono costi, misure, tempi. La fotografia e la comunicazione in forma digitale costituiscono il giro di boa più colossale della storia dell’uomo. Ora che tutto può essere detto e diffuso in tempo reale, tutto può simultaneamente essere illustrato ed esposto, a dispetto di ogni distanza e limite temporale, la comunicazione produce, e produrrà, nuove bellezze e nuove banalità.

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Murales all’esterno del Liceo Sigonio (Modena)

Le banalità, forse, non richiedono alcun viaggio esplorativo, sebbene anch’esse costituiscano un importante termometro esistenziale e non siano, perciò, del tutto prive di valore.

Le bellezze, invece, probabilmente possono richiedere nuove attenzioni per emergere dal bollore di un magma indistinto che caratterizza la comunicazione di oggi, ove tutto si mescola, e ove nessuno ha l’autorità di elevare facilmente, da quel magma, qualche singola perla nascosta.

E’ il prezzo della Post-Letteratura.
La letteratura tradizionale, quella espressa in cinquemila anni di civiltà, si fondava su un meccanismo elettivo governato dal mecenate, dal committente, dall’editore.
La Post-Letteratura è invece arte spontanea, senza regole precostituite, senza un necessario orientamento progettuale, editoriale, nella più assoluta libertà di forme, mezzi e supporti. Sganciata, talvolta, perfino dall’aspirazione al consenso di un ipotetico pubblico, sino alla manifestazione autistica. Arte, Letteratura per se stessi. Regola individuale. O in certi casi, di respiro collettivo. Universale.

La frontiera del blog, dell’E-book, del Post sul social network, costituisce il nuovo terreno letterario che descrive questa umanità. Di questa epoca. Chissà quali di questi graffiti supereranno il proprio tempo e assurgeranno, in un tempo futuro, a simbolo descrittivo del pensiero odierno.

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Murales sul tetto del Liceo Sigonio (Modena)

Abbiamo pensato di cristallizzare alcuni Post, espressioni di questa Post-Letteratura (il gioco di parole era troppo invitante per essere evitato).

Ci sono i Post originali e quelli derivativi, rubati o presi in prestito.
I post legati alla cronaca e al tempo presente, e quelli senza tempo, esistenziali puri.
Ci sono i Post Storia, i Post Poesia, i Post Narrativi. I messaggi cifrati. I segnali di fumo.
Le confusioni psichedeliche, i Post surrealistici, le interpretazioni, le visioni e le volontarie o involontarie alterazioni, le mescolanze tra realtà, fantasia, verità, finzione.
Il mondo e la mente, insomma. In un unico nuovo magma. Accessibile.

01.05.2014
Giuseppe Basile © Geophonìe

 

AMICHE DEL POMERIGGIO

Marta/Rei è lo pseudonimo di una studentessa liceale bolognese di 16 anni.  Questo suo racconto, “Amiche del Pomeriggio”, esperimento di scrittura visionaria, è il suo esordio narrativo ed esplora dimensioni personali non convenzionali  della comprensione, ove la  percezione di luoghi, significati e cognizioni della realtà si mescola all’instabilità adolescenziale e ad istanze interiori coltivate con la fantasia. 

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Unknown

Io l’orologio non lo guardo mai. Per tutti è normale sapere che ora è, per me è il contrario, trovo normale non saperlo. Non porto l’orologio al polso, e quando lo portavo (mio padre e mia madre me ne hanno regalati più di uno, alle scuole elementari ) temevo sempre che all’improvviso qualcuno mi chiedesse l’ora esatta.  Non dico che non sapessi leggerlo, ma lo facevo con lentezza, dovevo contare, interpretarlo, era un’operazione che non mi riusciva in modo meccanico, immediato. Dovevo pensarci. Gli orologi con il quadrante senza i numeri mi mettevano il panico.  Quelli con solo i numeri delle ore, almeno, mi aiutavano, lasciandomi la fatica dell’interpretazione dei minuti.

Città Fraintesa (Giuseppe Basile © Geophonìe, Gen.2014)

E venticinque, e trenta, e quaranta ma quando erano “e quaranta” dovevo dire “meno venti”, chissà perché: forse solo per complicarmi la vita. C’è della cattiveria, pensavo, in questa pretesa che gli altri hanno di farsi dire le cose secondo delle convenzioni più complicate. Sono le tre e quarantatrè, dissi una volta. Le mie compagne di classe risero: “Scusa ma non sai dire: sono quasi le quattro meno un quarto?” Candidamente risposi: “no. In fondo, che differenza c’è?”

Ho sempre avuto la sensazione, sin da bambina, che non fosse tanto importante sapere certe cose, quanto saperle dire. Anche oggi, in questa scuola, c’è gente che viene premiata perchè sa usare così bene le parole che già solo questo basta. Usando le parole giuste, certe persone riescono a costruire un muro così solido che ti impedisce di scoprire se le cose che dicono le abbiano capite davvero. Una sorta di ipocrisia legalizzata, un falso didattico. Io, invece, che le cose le capisco benissimo, devo dimostrarlo, perché con le mie poche parole, e forse la mia timidezza, suscito il sospetto di non aver compreso davvero, fino in fondo, ciò che sto esponendo.

Il timore dell’orologio ovviamente è poi scomparso. Da quando, poi, tutti sono dotati di telefoni cellulari e vivono con gli occhi perennemente sgranati e sprofondati nei loro display, nessuno più ha motivo di chiederti che ora è. Io continuo a non chiedermelo mai, continuo a trovare normale non saperlo. La dimensione del tempo la vivo in un modo tutto mio, non so spiegarla. E’ una mia sensazione, forse anche confusa, incerta, ma la trovo normale. E’ la mia. E ci sono mattine, o pomeriggi, o giorni interi, in cui sento che il tempo non passa mai.

Al pomeriggio la città è completamente deserta. C’è solo il silenzio e la luce del sole che batte a picco sulle strade calde. E’ una città del Sud in estate, riconosco il Sud, so di essere al Sud, lo avverto. Anzi, sono certa di essere in Puglia, la riconosco. Sono originaria pugliese, mi sono familiari questi colori, questo caldo, le architetture, gli odori. Nelle prime ore del pomeriggio qui c’è l’abitudine di dormire. Le persone, stordite dal caldo, lasciano le strade e chiudono i negozi: per almeno due ore la città si svuota come fosse notte. Io vivo al Nord, nella mia chiassosa Bologna, città in cui alle tre del pomeriggio la vita è uguale a tutte le altre ore della mattina, tanto che non ci si accorge di alcuna differenza: solo con l’orologio puoi rendertene conto. Ma adesso sono qui, sola, in questa strada, e non so il perché. Forse sono in vacanza, mi sto riposando, sto staccando dalla mia quotidianità scolastica, quella in cui mi sembra di cadere come fossi in preda alle vertigini, stordita da tante parole. Mi avvicino a una vetrina e leggo: “orario di apertura 16:30 – 20:30“.

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© Vito Savino

Mi piacerebbe entrare e chiedere alla commessa dove mi trovo. E’ simpatica, l’ho vista mentre chiudeva il negozio e usciva. Se invece dovessi fare questa domanda a un passante mi sentirei a disagio. Perché? Trovo subito la risposta: quella ragazza mi è familiare, mi sembra un’amica, è come se la conoscessi già. Eppure non sono mai stata qui, niente mi è familiare qui. La vedo ancora nei pressi del negozio, sta uscendo da un bar, è l’unica persona che cammina per strada sotto questo sole. Viene verso di me e nel suo viso trovo una somiglianza: è tale e quale a un’attrice che per anni ho seguito con passione in tv, anzi, mi sembra proprio lei. Se davvero lo fosse, non riuscirei a dirle una parola, avrei il timore di fare una brutta figura. Devo sperare, allora, che non sia lei; Ma se questa ragazza, dunque, fosse una perfetta estranea, che differenza ci sarebbe tra lei o qualsiasi altro passante sconosciuto?

“Scusi, in che città siamo? Mi sono persa”. Chiunque si stupirebbe delle mie domande e mi guarderebbe con sospetto. Ma ci sono persone capaci di comprensione, e questo mi aiuta a sentire più leggeri i miei smarrimenti. Se questa ragazza assomiglia alla mia attrice, con quello stesso sguardo, lo stesso sorriso (anche se non l’ho ancora vista sorridere!), forse le assomiglia anche nell’animo. Magari è disponibile e gentile, mi capirà.

Siamo ormai di fronte, si è accorta di me e mi viene incontro. Sono ferma davanti al suo negozio, sto pensando a cosa posso fare per dirle qualcosa, ma lei mi precede e mi dice: “apre tra un’ora e mezza”, dando per scontato che io sia davanti alla vetrina in attesa della riapertura. “Grazie, ma non sono qui per il negozio”, rispondo. “Ah, ok, va bene. Speravo t’interessassi al mio negozio”, mi dice dispiaciuta, “ho proprio lo stesso tipo di vestiti che indossi tu”. Vedo che vuole mostrarmi qualcosa, mi indica la vetrina. Iniziamo a parlare. E’ lei che vuole parlare con me. Anzi, sembra proprio sia lei ad aver più bisogno di me. Apre il negozio, insiste, mi fa vedere e provare mille cose, camicie, maglie, gonne colorate.

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© Vito Savino

All’improvviso vedo che sta per piangere e le chiedo il perché. “Sono stata licenziata”, mi dice, “oggi. Tenevo molto a questo lavoro, mi piaceva. Andrò via, in un’altra città, qui non c’è lavoro per me, ma voglio dimostrare di saper vendere tutto il possibile, vorrei almeno questa soddisfazione. Sono tutti al mare con questo maledetto caldo. Non c’è nessuno in città. Tu sei la mia prima cliente da questa mattina”. Decido di acquistare le sue maglie più belle. Mi chiede: “Di dove sei?” “Vivo a Bologna”, rispondo io. Ci scambiamo gli indirizzi, dice che verrà a trovarmi. Prendo un biglietto da visita del negozio e solo adesso leggo il nome di Lecce, città pugliese dove non ero mai stata prima.

Sento ora il suono di una campanella, ma è la sveglia del mio cellulare: la faccio tacere. Ma poco dopo sento davvero il suono della campanella. Sono a scuola? Ho dormito in classe? Ho sognato? Mi sono persa un’altra volta. La campanella dice che l’ultima ora è finita. Ci sono giorni in cui nel mio liceo vengono organizzate delle lezioni pomeridiane. Io vi partecipo sempre, mi raccomandano di non perderle, anche se non so quanto mi siano davvero utili. La mia concentrazione vacilla, sento che dopo cinque ore di scuola, in cui ho già fatto la mia brava fatica per stare attenta a non perdere il filo, continuare in questo sforzo a volte mi produce una sensazione di straniamento, come un’ubriacatura. Non ho mai bevuto una goccia d’alcool, ma immagino come dev’essere. Ci si deve sentire storditi, come capita a me quando vengo accerchiata da tutte queste parole, parole, parole, e devo distinguerle e ricordare tutti i loro significati.

In queste ore confuse, tra sogni e realtà, mi manca tanto – e vorrei – un’amica del pomeriggio. Una tra quelle mie cantanti, meravigliose attrici e ballerine, una di quelle fate che mi tengono compagnia mentre guardo la tivù, e che all’improvviso magari mettono un piede fuori dal palco, oltrepassano lo schermo, allungano una gamba e poi l’altra ed escono dal video, con le loro belle scarpe calcano il pavimento che separa la televisione dal divano su cui sono seduta in silenzio, e vengono a sedersi accanto a me. Bussano alla porta della classe. La lezione è finita, ma con mia sorpresa entra una ragazza. Penso alla commessa del negozio di vestiti. Le assomiglia.

Marta/Rei © Geophonìe, 2014

Adattamento e rielaborazione del testo di Giuseppe Basile © Geophonìe Diritti riservati.