Marta/Rei è lo pseudonimo di una studentessa liceale bolognese di 16 anni.  Questo suo racconto, “Amiche del Pomeriggio”, esperimento di scrittura visionaria, è il suo esordio narrativo ed esplora dimensioni personali non convenzionali  della comprensione, ove la  percezione di luoghi, significati e cognizioni della realtà si mescola all’instabilità adolescenziale e ad istanze interiori coltivate con la fantasia. 

15589704_10154805232219293_8629270778570903363_n

Unknown

Io l’orologio non lo guardo mai. Per tutti è normale sapere che ora è, per me è il contrario, trovo normale non saperlo. Non porto l’orologio al polso, e quando lo portavo (mio padre e mia madre me ne hanno regalati più di uno, alle scuole elementari ) temevo sempre che all’improvviso qualcuno mi chiedesse l’ora esatta.  Non dico che non sapessi leggerlo, ma lo facevo con lentezza, dovevo contare, interpretarlo, era un’operazione che non mi riusciva in modo meccanico, immediato. Dovevo pensarci. Gli orologi con il quadrante senza i numeri mi mettevano il panico.  Quelli con solo i numeri delle ore, almeno, mi aiutavano, lasciandomi la fatica dell’interpretazione dei minuti.

Città Fraintesa (Giuseppe Basile © Geophonìe, Gen.2014)

E venticinque, e trenta, e quaranta ma quando erano “e quaranta” dovevo dire “meno venti”, chissà perché: forse solo per complicarmi la vita. C’è della cattiveria, pensavo, in questa pretesa che gli altri hanno di farsi dire le cose secondo delle convenzioni più complicate. Sono le tre e quarantatrè, dissi una volta. Le mie compagne di classe risero: “Scusa ma non sai dire: sono quasi le quattro meno un quarto?” Candidamente risposi: “no. In fondo, che differenza c’è?”

Ho sempre avuto la sensazione, sin da bambina, che non fosse tanto importante sapere certe cose, quanto saperle dire. Anche oggi, in questa scuola, c’è gente che viene premiata perchè sa usare così bene le parole che già solo questo basta. Usando le parole giuste, certe persone riescono a costruire un muro così solido che ti impedisce di scoprire se le cose che dicono le abbiano capite davvero. Una sorta di ipocrisia legalizzata, un falso didattico. Io, invece, che le cose le capisco benissimo, devo dimostrarlo, perché con le mie poche parole, e forse la mia timidezza, suscito il sospetto di non aver compreso davvero, fino in fondo, ciò che sto esponendo.

Il timore dell’orologio ovviamente è poi scomparso. Da quando, poi, tutti sono dotati di telefoni cellulari e vivono con gli occhi perennemente sgranati e sprofondati nei loro display, nessuno più ha motivo di chiederti che ora è. Io continuo a non chiedermelo mai, continuo a trovare normale non saperlo. La dimensione del tempo la vivo in un modo tutto mio, non so spiegarla. E’ una mia sensazione, forse anche confusa, incerta, ma la trovo normale. E’ la mia. E ci sono mattine, o pomeriggi, o giorni interi, in cui sento che il tempo non passa mai.

Al pomeriggio la città è completamente deserta. C’è solo il silenzio e la luce del sole che batte a picco sulle strade calde. E’ una città del Sud in estate, riconosco il Sud, so di essere al Sud, lo avverto. Anzi, sono certa di essere in Puglia, la riconosco. Sono originaria pugliese, mi sono familiari questi colori, questo caldo, le architetture, gli odori. Nelle prime ore del pomeriggio qui c’è l’abitudine di dormire. Le persone, stordite dal caldo, lasciano le strade e chiudono i negozi: per almeno due ore la città si svuota come fosse notte. Io vivo al Nord, nella mia chiassosa Bologna, città in cui alle tre del pomeriggio la vita è uguale a tutte le altre ore della mattina, tanto che non ci si accorge di alcuna differenza: solo con l’orologio puoi rendertene conto. Ma adesso sono qui, sola, in questa strada, e non so il perché. Forse sono in vacanza, mi sto riposando, sto staccando dalla mia quotidianità scolastica, quella in cui mi sembra di cadere come fossi in preda alle vertigini, stordita da tante parole. Mi avvicino a una vetrina e leggo: “orario di apertura 16:30 – 20:30“.

IMG_1049

© Vito Savino

Mi piacerebbe entrare e chiedere alla commessa dove mi trovo. E’ simpatica, l’ho vista mentre chiudeva il negozio e usciva. Se invece dovessi fare questa domanda a un passante mi sentirei a disagio. Perché? Trovo subito la risposta: quella ragazza mi è familiare, mi sembra un’amica, è come se la conoscessi già. Eppure non sono mai stata qui, niente mi è familiare qui. La vedo ancora nei pressi del negozio, sta uscendo da un bar, è l’unica persona che cammina per strada sotto questo sole. Viene verso di me e nel suo viso trovo una somiglianza: è tale e quale a un’attrice che per anni ho seguito con passione in tv, anzi, mi sembra proprio lei. Se davvero lo fosse, non riuscirei a dirle una parola, avrei il timore di fare una brutta figura. Devo sperare, allora, che non sia lei; Ma se questa ragazza, dunque, fosse una perfetta estranea, che differenza ci sarebbe tra lei o qualsiasi altro passante sconosciuto?

“Scusi, in che città siamo? Mi sono persa”. Chiunque si stupirebbe delle mie domande e mi guarderebbe con sospetto. Ma ci sono persone capaci di comprensione, e questo mi aiuta a sentire più leggeri i miei smarrimenti. Se questa ragazza assomiglia alla mia attrice, con quello stesso sguardo, lo stesso sorriso (anche se non l’ho ancora vista sorridere!), forse le assomiglia anche nell’animo. Magari è disponibile e gentile, mi capirà.

Siamo ormai di fronte, si è accorta di me e mi viene incontro. Sono ferma davanti al suo negozio, sto pensando a cosa posso fare per dirle qualcosa, ma lei mi precede e mi dice: “apre tra un’ora e mezza”, dando per scontato che io sia davanti alla vetrina in attesa della riapertura. “Grazie, ma non sono qui per il negozio”, rispondo. “Ah, ok, va bene. Speravo t’interessassi al mio negozio”, mi dice dispiaciuta, “ho proprio lo stesso tipo di vestiti che indossi tu”. Vedo che vuole mostrarmi qualcosa, mi indica la vetrina. Iniziamo a parlare. E’ lei che vuole parlare con me. Anzi, sembra proprio sia lei ad aver più bisogno di me. Apre il negozio, insiste, mi fa vedere e provare mille cose, camicie, maglie, gonne colorate.

IMG_3038

© Vito Savino

All’improvviso vedo che sta per piangere e le chiedo il perché. “Sono stata licenziata”, mi dice, “oggi. Tenevo molto a questo lavoro, mi piaceva. Andrò via, in un’altra città, qui non c’è lavoro per me, ma voglio dimostrare di saper vendere tutto il possibile, vorrei almeno questa soddisfazione. Sono tutti al mare con questo maledetto caldo. Non c’è nessuno in città. Tu sei la mia prima cliente da questa mattina”. Decido di acquistare le sue maglie più belle. Mi chiede: “Di dove sei?” “Vivo a Bologna”, rispondo io. Ci scambiamo gli indirizzi, dice che verrà a trovarmi. Prendo un biglietto da visita del negozio e solo adesso leggo il nome di Lecce, città pugliese dove non ero mai stata prima.

Sento ora il suono di una campanella, ma è la sveglia del mio cellulare: la faccio tacere. Ma poco dopo sento davvero il suono della campanella. Sono a scuola? Ho dormito in classe? Ho sognato? Mi sono persa un’altra volta. La campanella dice che l’ultima ora è finita. Ci sono giorni in cui nel mio liceo vengono organizzate delle lezioni pomeridiane. Io vi partecipo sempre, mi raccomandano di non perderle, anche se non so quanto mi siano davvero utili. La mia concentrazione vacilla, sento che dopo cinque ore di scuola, in cui ho già fatto la mia brava fatica per stare attenta a non perdere il filo, continuare in questo sforzo a volte mi produce una sensazione di straniamento, come un’ubriacatura. Non ho mai bevuto una goccia d’alcool, ma immagino come dev’essere. Ci si deve sentire storditi, come capita a me quando vengo accerchiata da tutte queste parole, parole, parole, e devo distinguerle e ricordare tutti i loro significati.

In queste ore confuse, tra sogni e realtà, mi manca tanto – e vorrei – un’amica del pomeriggio. Una tra quelle mie cantanti, meravigliose attrici e ballerine, una di quelle fate che mi tengono compagnia mentre guardo la tivù, e che all’improvviso magari mettono un piede fuori dal palco, oltrepassano lo schermo, allungano una gamba e poi l’altra ed escono dal video, con le loro belle scarpe calcano il pavimento che separa la televisione dal divano su cui sono seduta in silenzio, e vengono a sedersi accanto a me. Bussano alla porta della classe. La lezione è finita, ma con mia sorpresa entra una ragazza. Penso alla commessa del negozio di vestiti. Le assomiglia.

Marta/Rei © Geophonìe, 2014

Adattamento e rielaborazione del testo di Giuseppe Basile © Geophonìe Diritti riservati.