Peter Gabriel (Marcello Nitti © Geophonìe)

Lo si attendeva ormai da troppo tempo, e con trepidazione. La presentazione del suo nuovo album, dunque, era inevitabile desse luogo a grandi aspettative: non sono bastate, però, l’emozione dell’incontro e la difficoltà di comprensione dei brani inediti per annullare del tutto la capacità di giudizio dei fans. Molti, come il sottoscritto, hanno preferito attendere l’uscita dell’album (avvenuta due giorni dopo, il 20) per riascoltare i brani eseguiti e rileggere mentalmente il concerto milanese. Che non è stato certo brutto, per carità. Ma che ha riproposto un Peter Gabriel sostanzialmente molto vicino a quello di dieci anni fa. Si può tollerare che un disco somigli al precedente quando il suo autore ne pubblica uno all’anno. Ma se dopo dieci anni ci si imbatte in un disco che suona come il precedente, o giù di lì, le cose cambiano.

La performance del 18 parte con “Darkness” , composizione alta e di effetto, ma che appare “disturbata” da una chitarra che ricorda forse i barriti di “Elephant Talk” dei King Crimson di vent’anni fa (Discipline, 82). Il brano (risentito, poi, a mente fredda è molto lirico, e la “dark” con cui viene reso, tra chitarre e bassi progressive, ma ormai meno progressive di un tempo, lo appesantisce).
Si prosegue con “Red Rain” che è quella che tutti conosciamo e quindi scivola via con l’unica funzione di non farci sentire totalmente estranei alla performance.
Peter va avanti con “Growing Up”, inedito più accattivante e di più facile comprensione, che sembra convincere tutti, ma che in fondo poi si rivela essere un brano pop come “Steam” del vecchio “Us” del 1992, destinato, cioè, a dare un movimento blues e soul in un disco che altrimenti sarebbe risultato troppo lento e grave.
Si procede con Sky Blue, sempre del nuovo album ma scritto nel 1991 (e infatti si sente). Il concerto, seguito con religiosa attenzione del pubblico, si accende maggiormente quando Peter intervalla le nuove composizioni con i brani vecchi (ma sempre di “So” e “Us” , quasi a voler sottolineare come il nuovo album sia il terzo capitolo di una trilogia): scorrono, così, “Mercy Street” che Peter interpreta alla grande, “Digging in The Dirt” che ci siamo stancati di sentire, e “Sledgehammer” che ormai prendiamo solo come necessario momento ludico e ballerino delle performance di Peter in quanto, musicalmente, ha ormai valore di modernariato.
“No Way Out” e “I Grieve” sono due tipici brani di Gabriel, di quelli che richiedono più ascolti e che nel concerto non potevano essere completamente recepiti: di sicuro spessore, ma in qualche modo noiosi (come risultava un po’ “Love To Be Loved” di Us, a cui per certi versi assomigliano, sebbene più cupi e ritmicamente diversi).
Si va avanti con “The Barry Williams Show”, lanciato come brano guida commerciale del disco, ma che – al sottoscritto – musicalmente appare come una drammatica variante di “Digging in The Dirt”, non necessaria e di scarsa originalità.
Decisamente positiva invece appare la presentazione di “My Head Sounds Like That” e “More Than This”, brani che anche dopo il “riascolto” dell’album dimostrano di essere i più completi come composizione, sonorità e godibilità (e che chiudono anche il disco con un ottimo crescendo compositivo, vario e suggestivo, sino ad arrivare a “Signal To Noise” e “The Drop”, eccezionali, ma che nel concerto non hanno trovato spazio). “Solsbury Hill”, “In Your Eyes” e “Downside Up” (quest’ultima ben cantata dalla giovanissima e carina Melanie Gabriel, nello scomodo ruolo di sostituta dell’immensa Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins), intervallano gli inediti col solito tripudio del pubblico.

Concerto di sicuro valore, anche se – musicalmente parlando – in fase ancora sperimentale e necessariamente minimale come scenografia (aspettiamo, ora, il tour mondiale).
Rimane, però, la soddisfazione “parziale” per aver visto ancora un Peter Gabriel in versione pop, come quello dei due precedenti e lontani lavori (“So” 1986; “Us” 1992) e il dispiacere per non aver ritrovato l’insuperabile Peter lirico che si attendeva col nuovo lavoro. Con la sola “Here Comes The Flood”, infatti, richiesta a gran voce a fine concerto e da lui eseguita in modo sublime, Peter ha dimostrato che un brano può essere riscritto cento volte quando è fatto di percussioni, suoni sintetici e alchimie computerizzate, ma se si tratta di vera lirica, non serve alcuna manipolazione e può bastare la prima versione, come quella scritta in mezzora in una magica sera del 1976 sulla collina di Solsbury Hill.

Rimane, inoltre, la delusione per aver risentito arrangiamenti sin troppo vissuti, e la sensazione di un apparato ritmico ingombrante, con un Tony Levin troppo presente e due chitarre sacrificate: il tutto a soffocare la liricità dell’artista, sommerso da campionature e suoni industriali anni ’80: anni della massima espressione dei vari David Rhodes, Tony Levin & C, e che Peter continua a portarsi dietro, nonostante la musica di oggi sia tornata all’acustico, dopo le cascate alluvionali di note pianistiche di Tori Amos, gli arrangiamenti sospesi tra il folk e l’hip hop di Ani di Franco, le rivisitazioni acustiche tra jazz del Delta e blues internazionale di Cassandra Wilson: artisti, questi, che hanno reinterpretato il concetto stesso di world music lanciato da Gabriel. E rimane, pure, sia consentito dirlo, il timore che il nostro eterno idolo, pur restando saldamente nei nostri cuori, abbia definitivamente smarrito quella magica ispirazione che gli consentiva di comporre liriche mai più raggiunte, come “Anyway”, “The Lamia” e “Cinema Show”.

Giuseppe Basile © Geophonìe