E’ uscito “Let’s Dance”, eccola l’ombra di David Bowie.

Corriere Del Giorno (Marcello Nitti © Geophonìe)

DISCHINOVITA’
Un album fallimento.

E’ uscito “Let’s Dance”, eccola l’ombra di David Bowie.

Il 12 aprile scorso è apparso in contemporanea in diversi paesi il nuovo album di David Bowie dal titolo “Let’s Dance” . Tutti i timori e le paure dei fans purtroppo hanno avuto ragione sull’ottimismo. La delusione è stata enorme. Cerchiamo di esaminare brevemente il lavoro di questo artista ormai pago, e spendiamo qualche parola sugli uomini che lo hanno accompagnato nelle registrazioni.

Questa volta Bowie si è fatto aiutare da Nile Rodgers, l’inventore degli “Chic” vale  dire disco-music per eccellenza. La produzione è quanto di più disumano possa esistere, e lo studio di musicisti che lo accompagna è composto soltanto da bravi artigiani senza creatività.

Al fiasco dell’album ha forse contribuito perversamente il cambio di casa discografica che Bowie ha operato l’anno scorso abbandonando la Rca e accettando l’offerta di 17 miliardi di lire della Emi. Probabilmente l’urgenza di recuperare almeno un’aliquota del denaro investito ha suggerito alla Emi di pretendere da Bowie un prodotto molto commerciale che mirasse al mercato americano.

La registrazione è perfetta, ma slitta in una monotonia spaventosa. Le prime delusioni sono sopraggiunte con il singolo pubblicato a febbraio (appunto “Let’s dance”) riportato poi fedelmente nell’album, e inoltre da una nuova versioe di “Cat people” di Giorgio Moroder qui riletta e riarrangiata in chiave blues funk.

Altri due colpi bassi vengono dal remake di “Criminal World”, brano senza infamia dei “Metro”, gruppo ormai spento (datato 1977), e da “China Girl”, stupendo pezzo composto da Bowie e Iggy Pop peraltro già contenuto nell’album dell’ex “Stooges” “The Idiot”.

La nuova versione di Bowie a parte la sua voce è senza grinta.

E con questo abbiamo praticamente esaurito metà album. I brani che rimangono, “Sheke it” (ridicolo) e “Ricochet” (palloso) sono da dimenticare. Restano ancora “Without You”, un brano lento e senza mordente, e la stupefacente “Modern Love” dove possiamo ascoltare finalmente qualcosa di degno. “Modern Love” è David Bowie al 100%, struttura alla Ziggy Stardust e voce da padreterno.

Forse questo “Let’s Dance” è la prima battuta d’arresto. D’altronde brani come “Ashes to Ashes”, “Heroes”, “Boys keep swinging” e molti altri, sono difficile da scordare.

C’è da dire infine che, mezzi a disposizione, Bowie potrà essere goduto dal vivo considerato che tra i suoi incontabili impegni soprattutto cinematografici si esibirà in concerto il 19 maggio a Bruxelles; il 20 a Frankfurt; il 21 a Monaco; il 24 a Lione; il 26 a Frejus-Saint Tropez; il 29 a Nantes; 2,3 e 4 giugno a Londra – Wembley; il 5 e 6 a Birmingham; l’8 a Parigi; 14 e 15 a Essen (Germania); il 7 a Bad Segerberger; il 20 giugno a Berlino Ovest.

Marcello Nitti

Va tutto bene stanotte. Sul piatto che Mr. Bowie

E’ uscito “Tonight”. Lui ha lasciato la Rca per un affare da 14 milioni di dollari.

A trentasette anni suonati Mr. David Bowie ritorna al pubblico internazionale con il nuovo lavoro dal titolo “Tonight”. Dopo un periodo di silenzio discografico dell’81 e dell’82, Bowie abbandona la Rca per firmare un contratto di 14 milioni di dollari con la Emi per tre albums.

“Let’s Dance” dell’83 indusse Dav id Bowie ad approntare una grande tournee mondiale sino ad arrivare in Nuova Zelanda e a Hong-Kong, dove ci furono in quattro serate ben 800.000 spettatori.  Non si era sforzato granchè per le composizioni di “Let’s Dance”, visto che conteneva due brani datati e una  “cover” dei Metro,  “Criminal World” e non si è sforzato nemmeno col nuovo “Tonight” visto che il suo brano omonimo è una sua composizione del 77, allora cantata da Iggy Pop.

Troviamo anche “Neighborhood Threat” sempre del 77, “Don’t Look  down” dell’80 e due “cover”.  La prima dei Beach Boys, “God Only Knows”, e la seconda del famoso duo di autori per Elvis Preslet e Tom Jones degli anni sessanta Jerry Leiber e Mike Stoller, dal titolo “I keep forgettin”.

Ma veniamo alla fattura del disco: “Bowie ancora una volta ha voluto i fiati e in più arrangiamenti per orchestra grazie ad Arif Mardin. Il suo fido Carlos Alomar alla chitarra. Viene fuori un disco per molti gusti, Bowie spazia, si avvicina al reggae con “Tonight”, dove duetta con la voce di Tina Turner: “Andrà tutto bene stanotte / Nessuno si muove / Nessuno parla / Nessuno pensa /Nessuno cammina stanotte, stanotte (da “Tonight”).

Poi  ammicca ancora in un brano sinfonico con Carlos Alomar in bella evidenza, “Loving The Alien” : “Pensando ad un diverso periodo / Palestina: un problema moderno / generosità è il tuo problema in terra / terrore in un piano ben disposto (da “Loving the Alien”).

I momenti migliori li troviamo in “Dancing with the big boys”, ritmata e metropolitana, con la seconda voce di Iggy Pop in “Tumble and Twirl” accarezzata da ricordi estivi trascorsi in riva al mare tra amache e noci di cocco e “Blue Jean” accompagnato da un video di 22 minuti diretto da un mostro sacro del genere: Julian Temple, e presentato in anteprima alla Biennale Cinema di Venezia. “Guarda fuori al mondo che conosci / io ho il mio / lei ha radici latine / lei ha tutto (da “Blue jean”).

Ma il brano più bello e più trascinante è senza dubbio “Neighborhood Threat”, che eccita ed esalta come ai tempi di “Ziggy Stardust”. “Se non puoi aiutarlo / non lo può fare nessuno / Ora che sa che non c’è nulla da avere / scommetterai ancora sulla / minaccia del vicinato” (da “Neighborhood Threat”).

Ogni nuovo album di David Bowie suscita sempre passione e amore e naturalmente troverà tutti i suoi fedeli ascoltatori dalla sua parte. Ma forse è meglio dire soltanto: “Tonight” è il nuovo album di Mr David Jones, in arte David Bowie.

Marcello Nitti © Geophonìe
Corriere Del Giorno

02.04.1983 Caro Mister Massarini, hai perduto la fantasy?

Marcello Nitti © Geophonìe. 02.04.1983, Corriere Del Giorno

Di scadente qualità la trasmissione musicle della Rete 1.
Novità discografiche ignorate, concerti maltrattati. Che cosa è accaduto dopo l’esplosione punk.

Due note. La prima: attualmente stiamo attraversando un lungo periodo di confusione. Molti gruppi sono nati dopo l’esplosione Punk, che avvenne nell’ormai mitico biennio 76-77. Di conseguenza vari stili sono andati miscelandosi, dando forma a una serie di collaborazioni di breve durata.

Più di una volta la stampa britannica ha riportato nelle sue colonne notizie di nascita di estrosi gruppi – vuoi in stile western, vuoi in stile pirata, macho, africano – cose che oggi non fanno più sensazione.

Una collaborazione senza una precisa immagine scenica è quella che hanno effettuato, da circa un anno, l’ex bassista della “Gang Of Four” e l’ex tastierista degli “XTC”.

Il nome che si sono dati è “Shrieback” ed il loro primo risultato è l’album “Cave” (edito dalla “Y Records”). Fusioni ritmiche corpose, cesellate benissimo da Dave Allen (basso) e intessute da Barry Andrews (tastiere). Vi ricordo che l’Andrews, dopo essere stato alla corte di Robert Fripp, continua a lavorare con molto gusto.

La seconda nota la dedico a “Mister Fantasy”, trasmissione di Stato che sta scadendo di qualità. Non c’è dubbio: “Mister Fantasy”, per ovvi motivi di mercato, ci propone sempre gli stessi video e/o angoli tappabuchi come le “video-lettere”.

Chiediamo: più notizie riguardanti le novità discografiche internazionali e filmati sui concerti di buona fattura che si svolgono in Italia, con relative interviste.

Nell’ultimo anno in Italia si sono esibiti i “Virgin Prunes”, i “Simple Minds”, gli “Ultravox”, gli “XTC”, i “Bootown Rats”, “Siouxsie and the Banshees”, “Dead Kennedy’s”, “Bauhaus”, “New Order”, “Echo and The Bunnymen” e altri ancora, i quali puntualmente non hanno trovato spazio nella trasmissione del caro “capello scolpito”.

Marcello Nitti © Geophonìe
02.04.1983, Corriere Del Giorno

10.10.1984. Un disco al giorno. I sogni dei Prefab Sprout.

Marcello Nitti © Geophonìe.  10.10.1984, Corriere Del Giorno

 

Dicono bene i New Order che “i sogni non finiscono mai”;  infatti non c’è niente di più azzeccato nel definire l’esordio dei “Prefab Sprout” un vero e proprio collage di sogni.

“Swoon” è il titolo dell’ultimo disco.

I fratelli Paddy e Martin McAloon insieme alla dolcissima voce di Wendy Smith formano il trio, e il loro nome, “Prefab Sprout”, così simpatico e buffo, ha più il sapore di uno di quei prodotti da cucina americani che non il nome di una band inglese, capace di una musica acustica, ricca di variazioni e deliziosamente notturna.

Dicevo che “Swoon” è il loro album, e oltre ai nostri tre amici c’è anche Graham Lant alla batteria che percorre tutti i brani con un tocco magico, caricandoli di swing, così presente ovunque. Le undici composizioni sono di una bellezza unica e a mio avviso ci troviamo di fronte ad uno dei migliori album del 1984: provate ad ascoltare “Couldn’t bear to be special”, così leggera e soave che ti sembra di essere a bordo di una nuvola ad osservare i tuoi amici rimasti a bocca aperta, e poi ancora “Cue fanfare” e “Here on the eerie” rifinite da chitarre acustiche e tastiere da sembrare amorevolmente un prodotto di alta oreficeria.

“Ghost town blues” invece ti porta in un bar fumoso pieno di gente con tanta voglia di raccontare ciò che non hanno mai fatto e quel pianista che danza sui tasti del suo strumento ci strizza l’occhio con un sorriso pieno di felice rassegnazione. Quello che fanno grandi i “Prefab Sprout” è la loro maniera di cantare, le loro melodie sono frastagliatissime, la loro voce di Wendy Smith si colora di tinte senza nome, e l’uso che ne viene fatto in “Don’t sing” e in “Elegance” ne è una prova convincente.

Paddy McAloon che è il masimo autore dei brani di “Swoon”, è anche la voce principale, molto originale e molto confidenziale, e l’esibizione “Technique” e in “I never play basketball now” dovrebbe convincere i più scettici. In finale le più belle composizioni dell’intera raccolta, “Cruel” e “Green Isaac I “ e “II”, dove sono fuse tutte le qualità dei “Prefab Sprout”, la giusta dolcezza che accarezza una nuda spalla femminile addormentata di fronte alle stelle chiacchierone.

Marcello Nitti © Geophonìe
10.10.1984, Corriere Del Giorno

18.05.1985. Il gruppo rock inglese al palazzetto del Tursport

Stasera The Sound. Ecco il loro ultimo ellepì.

“Heads And Hearts” dovrebbe essere il disco della definitiva affermazione del gruppo inglese. Borland & soci stanno insieme da quattro anni e nonostante siano riusciti a destare l’interesse della critica e degli addetti ai lavori non hanno ancora conquistato il consenso popolare che è in definitiva la molla per fare di più col futuro lavoro.

Non è la prima volta che un gruppo inglese non riesce a vendere dischi nella propria terra: vale per tutti l’esempio dei Genesis, che all’inizio della loro carriera venivano ignorati anche dalla critica inglese mentre avevano conquistato la fiducia di quella italiana e di quella continentale e soprattutto vendevano dischi con facilità.

La tournèe  che The Sound stanno tenendo in questi  giorni in Italia potrebbe far scattare quel meccanismo sufficiente a far entrare nelle classifiche l’album “Heads And Hearts”, il primo vero a lunga durata dopo “Jepoardy” dell’80,”From The Lions’ Mouth” dell’anno dopo, “All Fall Down” dell’82 e “Shock Of Daylight”, il primo inciso per la Statik del gruppo Virgin.

“Heads And Hearts” comprende undici brani, tutti con idee abbastanza originali e con il rock a comune denominatore. L’iniziale “Whirlpool” è in un certo senso il biglietto da visita dell’album con un ritmo trascinante basato su una frase ritmica che rimane ben impressa (si badi bene che però sfiora soltanto l’orecchiabilità); la successiva  “Total recall” è invece costituita su un efficace giro di basso con chitarra acustica e tastiere che completano l’atmosfera su cui si erge la voce solista di Adrian Borland. “Under You” iniziò con un fraseggio fra il basso di Graham Bailey e la batteria di Mike Dudley in cui si inserisce anche la chitarra e ad un certo punto appare il sax dell’ospite Jan Nelson; forse un tantino anonima è “Burning part of me” pervasa dalle tastiere di Colvin Mayers e sottolineata in maniera egregia dalla voce di Borland. La facciata si chiude con “Love is not a ghost” che più di tutte le altre si avvicina al repertorio dei leggendari Doors di Jim Morrison per la sua staticità esecutiva.

Gira il disco e “Wildest dreams” si snoda su un tessuto ritmico eccezionale con la chitarra di Borland ad avventurarsi in un assolo per poi intgrarsi con il resto della strumentazione. E’ la volta di “One Thousand Reasons” che dopo un inizio decadente si snoda in un incedere epico. Davvero stimolante è “Restless Time”, uno degli episodi più effervescenti della facciata con un ritmo sostenuto fino alla fine. Più pacato è invece “Mining  For Heart” che riesce a creare un’ atmosfera ostinata (in bella evidenza il basso e il tessuto delle tastiere). “World As It Is” colpisce per il nervoso incedere rock e nella sua relativa brevità ha un sapiente punto di forza; chiude questa seconda facciata “Temperature Drop” che nel nuovo rock proposto dai quttro Sound è forse il compendio più geniale.

Dopo l’ascolto di questo disco l’attesa per il concerto tarantino del Tursport è davvero notevole e sicuramente non rimarranno delusi quanti si aspettano da questo gruppo  quegli stimoli sufficienti per continuare a sperare in un microcosmo musicale più creativo

Franco Gigante
18.05.1985, Corriere Del Giorno

 

Tempo pugliese per Psychedelic Furs

Tempo pugliese per Psychedelic Furs

Anche i Psychedelic Furs sono approdati in terra pugliese, effettuando un impeccabile concerto nel campo comunale di Triggiano (Bari).

Il gruppo dei fratelli Butler era atteso con impazienza visto il constante aumento degli affezionati del gruppo e delle critiche quasi sempre positive che la stampa mondiale ha sempre loro riservato.

Lo spettacolo è stato un compendio della loro carriera, da “Low My Way”, tratto dall’album “Forever Now” passando a “Pretty in Pink”, “Sister Europe”, “President Gas”, “Heaven”, “Imitation of Christ” e concludendo con “Into you like a Train” e “India”. In sintesi hanno eseguito sedici brani comprendendo “Angels”, un inedito, e raccogliendo consensi da parte del pubblico presente. Richard Butler era accompagnato dal fratello Tim al basso da John Ashton alla chitarra e da altri quattro amici che suonavano rispettivamente le tastiere, la batteria, la seconda chitarra e i fiati.

Un concerto di buona musica rock, dove l’attenzioe era tutta rivolta verso Richard che con la sua roca voce ha dato un timbro inconfondibile al sound dei Psychedelic Furs.

Questo tour italiano ha permesso ai P.F. di promuovere il loro ultimo album “Mirror Moves” che esce a quasi due anni di distanza dall’eccellente “Forever Now” e di farsi conoscere ad un pubblico più vasto. Dopo un attento ascolto di “Mirror Moves”, almeno due brani colpiscono per immediatezza e calore, mi riferisco a “The ghost in you” e ad “Heaven”, brani tipici dei fratelli Butler, che oramai hanno raggiunto un alto livello compositivo.

Proseguendo c’è “My Time” che racchiude atmosfere eteree, dominate da un ingresso e un tappeto di tastiere, poi ancora la dura “Heartbeat”, pubblicata in versione “extended” e che ha fatto il giro delle discoteche, forse il brano meno tipico del gruppo. Con “Alice’s House”, “Like A Stranger” e “High Wire Days”, Richard Butler canta con rauca passione e ci rimanda a quei giorni che hanno preceduto dei momenti di crisi, quei giorni che sono venuti come una fune messa lì per aiutarti a salire su per la collina ad abbracciare il sole …

Marcello Nitti © Geophonìe

Le rimembranze di The The e la pace di Weller

Questa volta si parla di sue singoli a confronto, sempre nella versione E.P., e precisamente dei nuovi brani di Matt Johnson (alias The The),  e di Paul Weller (ex Jam) e Mick Talbot come “The Style Council”. C’è subito da dire che “This is the day” di The The e “Long Hot Summer” dei Style Council sono forse i prototipi della musica del prossimo anno.

Matt Johnson lo conosciamo bene per aver precedentemente pubblicato “Uncertain Smile” e “Perfect”, dove i suoi brani con quella melodia frastagliata e accattivante hanno subito creato uno stile inconfrontabile. Nel suo nuovo singolo “This Is The Day” Matt Johnson ci propone una pop-song dal sapore dolce e romantico. Lunghe passeggiate e momenti di riflessione: sono i ricordi che affiorano all’ascolto, e la canzone scivola via. L’incedere ovattato della batteria rende ancora più gradevole e luminoso il sound.

D’altra parte, Paul Weller e Mick Talbot hanno confezionato un E.P. (“Long Hot Summer”) che arriva diritto al cuore, bisognerebbe farlo ascoltare al tavolo “russo-americano” di Ginevra per il disarmo nucleare, sarebbe senza dubbio molto convincente. Atmosfere di pace e di benessere, i pori della pelle si aprono, sembra veramente l’estate più calda, siamo tutti innamorati.

In verità è successo tutto molto presto Paul, non credevamo che con i “Style Council” avresti sbalordito come già con i tuoi Jam (ricordi?). Adesso da te pretendiamo tutto, tu ci hai sempre viziati con il tuo buong gusto, e buona parte dei prossimi mutamenti musicali ti vedranno protagonista.

A mio parere con “Long Hot Summer” ci hai regalato qualcosa di più di una canzone.

Marcello Nitti © Geophonìe
Corriere del Giorno

19.06.1982. I New Order al Tursport

I New Order al Tursport
Sabato il concerto

Un altro spettacolare appuntamento con la musica rock al Tursport. Sabato 19 giugno saranno di scena i “New Order”  in concerto. E’ sicuramente il gruppo rock attualmente più amato e più seguito dai giovani appassionati a questo genere musicale.

I New Order possono essere meglio ricordati come “Joy Division”, era questo il nome del complesso fino a due anni fa.

Dopo i Bauhaus, i New Order sono il secondo gruppo di fama mondiale a scendere qui a Taranto. E proprio a seguito del successo musicale e di incassi riscosso in quell’occasione si prevede, con la serata di sabato 19 giugno, un secondo “pienone” nel palazzetto del  Tursport.

Anche i  New Order sono messaggeri di un tipo di rock piuttosto tagliente ma che suscita allo stesso tempo emozioni indimenticabili con una scenografia senza precedenti. Con il concerto di Taranto saranno in Italia per la prima volta. Già da numerosi centri della Puglia sono pervenute massicce prenotazioni da parte di giovani interessati ad un appuntamento musicale senza precedenti e di portata davvero mondiale. Lo spettacolo avrà inizio alle ore 22.

Marcello Nitti © Geophonìe
15.06.1982, Corriere Del Giorno

19.04.1985. The Cult. Il post punk a Taranto

 

Venerdì 19 al Tursport 
In città un solo punto di prevendita

I Cult sono probabilmente insieme ai Sister Of Mercy i più degni rappresentanti del post-punk di terza generazione. Si formano nell’82 dopo lo scioglimento dei Southern Death Cult, una “cult band” proveniente dai sobborghi londinesi e destinata a una fine precoce per divergenze tra i componenti.

La figura di spicco dei S.D.C., e cioè il cantante Ian Astbury, riunisce subito intorno a sé altri protagonisti della scena musicale londinese: Bill Duffy (già chitarrista dei Theatre of Hate), Ray Mondo e Jamie Stewart rispettivamente batterista e bassista dei Ritual, e insieme formano i Death Cult. Dopo la pubblicazione del primo singolo, “Brothers Grimm”, i kids inglesi li riconoscono leader incontestabili, insieme a Sex Gang Children e A Sister Of Mercy, del post punl più valido.

Dopo pochi mesi Ray Mondo abbandona il gruppo e Ian commentando questo episodio ammette l’influenza di Ray su certe soluzioni sonore giudicate troppo dark dalla stessa band.

Ray è subito rimpiazzato da Nigel Preston (batterista nei  Sex Gang  Children e nei Theatre Of Hate) che con Jamie forma la sezione ritmica più compatta ed affiatata mai sentita. Infatti “God’s Zoo”, secondo singolo del gruppo scala rapidamente le charts inglesi grazie all’equilibrio creato tra ritmo ed intuizione compositiva. Dopo aver cambiato il nome in quello definitivo di “Cult” e dopo numerose tournèe in UK decidono di proporsi per un tour mondiale che li vede impegnati al “Danceteria” di New York dopo aver toccato tutte le capitali europee della musica, riscuotendo un enorme successo.

Nell’aprile 84 incidono il loro primo album “Dreamtime” preceduto di poco da un singolo di successo, “Go West”. Dreamtime è l’opera più completa del gruppo il quale si appropria con questo album di una immagine e di un ruolo ben definito nell’ambito della new wave inglese: non più soluzioni dark, ma ritmi potenti sostenuti dai fraseggi felici della chitarra di Billy Duffy. Ma l’elemento coesivo dell’architettura sonora è la voce possente e molto particolare di Ian che unita alla sua presenza scenica molto ricercata rende le esibizioni dal vivo delle impeccabili performance.

Ciò che contribuisce ad aumentare vorticosamente le richieste per il gruppo che ha tutti i requisiti ormai per diventare mito. Dopo aver piazzato un altro singolo in classifica, “Spiritwalker”, i Cult suonano sempre più spesso nei templi del rock di Londra fino a che registrano un video-live di una loro esibizione al Lyceum che cattura in parte la bravura e il feeling del gruppo. Ultimo singolo a piazzarsi in classifica è “Resurrection Joe”, vero e proprio hit dei dancefloor di tendenza.

La tournèe italiana, che toccherà Taranto venerdì 19 al Tursport, è l’occasione definitiva per non perderci una delle più eccitanti performance live che si possano vedere nel panorama della new wave. Prevendita presso Best Record, Via Pupino, 19.

Discografia: Death Cult – Brothers Grimm 12” ; – Death Cult – God’s Zoo12” ; The Cult – Go West 12” ; The Cult – Dreamtime (2 Lp, Studio + Live); The Cult – Spiritwalker 12” ; The Cult – Resurrection Joe 12” .

Marcello Nitti © Geophonìe
16.04.1985, Corriere Del Giorno

08.09.1983. L’altra notte a Modena. Sul palco c’è Siouxie.

Corriere del Giorno, 08.09.1983

Modena – Dopo aver fatto tappa a Rotterdam e a Zurigo, i Siouxie and the Banshees concludono questo breve tour in Europa, suonando a Modena il 6 settembre: l’occasione è stata importante oltre ad essere l’unico concerto in Italia. Ed è stata anche l’occasione di vedere alla chitarra Robert Smith, quello dei Cure.

Ma ci sono altre novità, prima di descrivervi il concerto. I Cure e i Banshees sono forse i superstiti della famosa ondata del ’77 – ’78, infatti, dopo lo scioglimento dei Wire, dopo la morte di Ian Curtis e di conseguenza dei Joy Division, dopo la rottura del Pop Group e la recente notizia dello scioglimento dei Bauhaus, i due gruppi in questione sono impegnati in molti progetti. Robert Smith è entrato a far parte dei Banshees in pianta stabile, sempre continuando a lavorare con Simon Tholrust, ovvero i Cure, pur creando con Steve Severin, bassista dei Banshees, un progetto a due ambizioso dal titolo The Glove.

E’ appena uscito “Like an Animal” del duo con l’inserimento di una voce femminile, già in classifica in Gran Bretagna. C’è ancora da ricordare “The Creatures”, protagonisti Siouxie Sioux e Budgie, del Banshees che, come ricorderete, hanno pubblicato da poco l’album “The Feast”.

Corriere del Giorno, 03.09.1983

Quindi, molto lavoro e pieno sfogo delle proprie aspirazioni e martedì sera, a Modena, erano lì, sul palco, Budgie, Robert Smith e Siouxsie Sioux, i Banshees al completo. In una fresca e stellata serata e dopo una performance abbastanza fischiata dei “Killan Camera”, gruppo italiano, i Banshees incominciano la loro esibizione. E’ stato magico, le prime note di overground, del primo album “The Scream”, hanno mandato subito in visibilio il pubblico, che per l’occasione era quasi tutto in bianco e nero, e con acconciature impossibili. E’ stato con il secondo brano, “Green Fingers” che una decina di punks riuscivano a salire sul palco per abbracciare il loro idolo: Siouxie. C’è stato un attimo di stupore, e mentre Steve Severin e Budgie suonavano regolarmente sul palco, si era creata un’invasione fra punks e forze del servizio d’ordine. Tutto andava bene e lo sbigottimento del pubblico finiva in un lungo applauso, mentre i Banshees continuavano con “Cascade, Melt e Sin in my heart”.

Tutti gli occhi erano puntati su di lei, Siouxie che cantava splendidamente con la sua voce che ti raggiungeva dovunque e Budgie, infaticabile alla batteria, a comporre le bellissime trame ritmiche; Severin, vera sorpresa della serata, con il suo basso creava il tipico suono Banshees. Infine, Robert Smith che alla lettera eseguiva le precedenti creatività dell’ex Hohn McGeoch. Il pubblico è esploso quando i Banshees hanno eseguito, di seguito, “Arabian Nights, Happy House, Spellbound”, brani epici del gruppo che hanno infiammato i quattromila presenti.

Logicamente i Banshees si congedavano da Modena e dall’Italia con due bis notevoli, una versione al limite della religiosità di “Halloween” e una versione splendente di “Israel”, mitico 45 giri del gruppo.

Siouxsie ringraziava e la notte copriva tutto, ma non la registrazione del concerto che già intonava nel registratore e che a Taranto potrete sentire per intero a un gran galà del Tursport, insieme al concerto di Bowie a Monaco di Baviera. Da un brano di Siouxie and The Banshees: “Christine the Strawberry girl, Christine banana split”.

Marcello Nitti © Geophonìe
(08.09.1983)

20.07.1985. Cantami o Diva le macabre liriche del Punk

Siouxsie iera sera al Tursport di Taranto.

Daniela Pinna © Corriere Del Giorno, 21.07.1985

Una diva gotica tra sole e mare: pareva impossibile, ma è accaduto. Siouxsie Sioux, madonna nera del rock inglese, prima signora del punk, ha suonato ieri notte al Tursport in compagnia della sua storica band, i Banshees. Il  “suono oscuro” – così veniva chiamato nel suo periodo d’oro, gli ultimi anni ’70 – è stato felicemente trasportato in mezzo ai colori  (e alla calura) dell’estate tarantina.

Brani nati nel buio delle cantine o nel ritirato appartamento di Siouxsie,  “un seminterrato col pavimento in legno, senza moquette e con poca luce”, come precisava la stessa Siouxsie su Smash Hits qualche tempo fa, hanno creato strane atmosfere nella calda notte estiva. Con piena soddisfazione dei rocchettari locali, dei vacanzieri e dei romantici ribelli metropolitani senza metropoli.

Siouxsie Sioux non rappresenta l’ultima moda canora, non sbanca le classifiche mondiali, non interpreta film d’essai o di successo, ma ha un seguito  personale che non ha pari tra i musicisti della sua generazione. Scomparsi e riciclati i Jam, in inarrestabile declino i Clash, svanita Blondie insieme con i suoi amici newyorkesi, solo Siouxsie resiste sulla cresta dell’onda del dopo punk.

“Non c’è ragione sulla terra per cui questa marcia da funerale debba provocare una così veemente reazione da parte del pubblico”, scriveva qualche settimana fa Ted Muco recensendo per Melody Maker il concerto del gruppo alla St. James 15 Church di Londra. Ma era solo pudore – forse un po’ d’imbarazzo – per l’entusiasmo che traspare dal suo pezzo. “L’incorrotta regina del punk, colei che sputa rose (sic!), ha ancora una voca casta che seduce con calore e fascino: ha acuti debilitanti che impongono la resa di ogni senso”,  prosegue Mico: il quale ha certamente almeno 25 anni.

Colta, cattiva, riservata, senza amici al di fuori della band, senza fidanzato fisso: è questa l’immagine che Siouxsie Sioux ha saputo creare e conservare negli anni. Un tipo che ben si adatta all’autrice di danze macabre e cantilene blasfeme. I suoi brani più celebri, “Icon”, “Cascade”, “Mother I Promise”, parlano di esaltazione della disperazione, Amore & Morte (sempre saldamente uniti) putrezioni varie. Se assurgessero alla dignità di studi per semiologi le liriche del gruppo susciterebbero certo curiosità per il numero di insetti e parassiti che ne sono protagonisti. Stupire e far inorridire, d’altronde, era un obbligo del punk. Con i suoi modi, con i suoi vizi e anche con il suo abbigliamento Siouxsie ha comunque creato una scuola.

Gioielli di plastica, vestiti sado maso, bustini ecc. esistevano ben prima di Madonna (che semmai li ha colorati)  e Siouxsie lo dimostra. E chi non ricorda l’abbigliamento del periodo “piratesco” di Adam Ant, i primi costumi da neo-romantica gioventù degli Spandau Ballet? La signora Sioux e le sue streghe (La Banshee è la donna la cui apparizione annuncia la morte nella mitologia irlandese) sopravvivono a discepoli e imitatori. Sino a riuscire dalle loro nebbie per venire al sole di Taranto. Non resta che chiedersi con Ted Nico: “che bisogno abbiamo di eroina e morte, quando notti come queste ci fanno fare voli così elevati?”

Daniela Pinna © Corriere del Giorno
(21.07.1985)

10.10.1984 John Cale l’instancabile

Corriere del Giorno, 10.10.1984

Rock /  “Caribbean Sunset”

Sornione e con pacata naturalezza, disteso a meditare su una spiaggia, forse caraibica, John Cale  ex Velvet Underground e punta di diamante di un rock arcano e sanguigno, continua imperterrito

a pubblicare  “solo”  di lucida bellezza. New York è oramai la sua città, come. per tanti musicisti. Le storie sono quelle di sempre; l’amore, le delusioni, il mare, il sole. Ascoltare questa sua ultima fatica, “Caribbean sunset», mi fa tornare indietro a certe sonorità di “Another green world» di Brian Eno, quasi a voler dimostrare un profondo amore per il passato.

«Villa Albani», contenuta nell’album, ha evidentemente contagiato John Cale, interessandolo a certe forme di antica bellezza e di amori passati, L’intero lavoro contiene le tipiche basi del suo modo di fare musica, semplici ballate intrise nella  sua voce roca e la sua inconfondibile e fedele viola che oramai lo segue dappertutto. Lo accompagnano Dave Young (chitarra e voce), Andy Heermanns (basso e voce), Dave Lichtenstein (batteria) e, sorpresa finale, Brian Eno (alle tastiere).

Quindi il sodalizio che inizia in quel famoso 1° giugno del 1974, in uno storico concerto insieme a Nico, Kevin Ayers, Rober Wyatt, Olleie Halshall, Mike Oldfield ed altri, continua nelle note di questo “Caribbean Sunset” che certamente stupirà più di qualcuno.

“Hungry for love”, contenuta in questo “tramonto caraibico” è grezza e ruvida, come nella migliore tradizione “caleiana”.

Dolce e ritmica come se fosse un metronomo a protrarre il tempo, è proprio “Caribbean Sunset”, protesa a raggiungere l’origine di quei raggi di sole che ancora illuminano l’ex compagno Lou Reed.

In definitiva il John Cale di sempre. Gli anni passano, la voglia di far musica rimane inattaccata. Continuare a fare ciò in cui si crede: forse è proprio questo che John Cale vuole  dirci.

Marcello Nitti © Geophonìe

04.09.1984. Quattro gentleman rock i raffinati Ultravox

Corriere Del Giorno, 04.09.1984

di Claudio Frascella.

E’ domenica sera, intorno alle 20. Vicino al Tursport, sede dell’avvenimento musicale dell’anno, il concerto degli Ultravox, non c’è più un posto dove sistemare un’auto. Parcheggio di ripiego diventa il lungo viale del Faro o una delle strade adiacenti. Una lunga fila ai botteghini: molti hanno occupato all’interno del campo sportivo i primi posti dal pomeriggio. I ritardatari si affrettano ad acquistare il biglietto scivolando  all’interno del Tursport, correndo, accosciandosi per terra o trovando un posticino nella tribunetta laterale.

Non sono in molti a sedere sulla piccola gradinata, stanno strettini, vedono lo spettacolo a un quarto. Ma l’importante, qualsiasi sia il posto rispetto al palco, è esserci. E’ una bella serata, non fa caldo. L’impianto montato sull’enorme palco, davanti a una delle porte di calcio, è ciclopico. Nell’aria, quasi a scandire il viavai della gente alla ricerca del solito posto o del gruppetto di amici, c’è la musica di Phil Collins (anche lui inglese, anche lui gruppettaro).

I tecnici al mixer alzano e abbassano i livelli del volume per dare gli ultimi ritocchi all’impianto: it’s ok. Un quarto alle 21, salgono sul palco i Messangers, un duo inglese che avrà il compito di scaldare il pubblico prima dell’ingresso delle rockstars. I due sembra siano infilati in una piccola grotta, quasi sacrificati sull’enorme stage. Questo per non scoprire, togliendo il gusto della sorpresa, il colpo d’occhio della scenografia. Sulle teste dei due supporters una grande rete che si leverà all’inizio del concerto degli Ultravox.

I Messangers sono bravi. Anche loro fanno elettronica. Per venti-venticinque minuti fanno ascoltare la loro produzione discografica. In Inghilterra sono conosciuti, in europa ancora anonimi. Con l’enorme pubblico che richiameranno gli Ultravox nel tour europeo sperano di farsi apprezzare. Quando lasciano il palco, gli spettatori, più di cinquemila, attendono per quasi tre quarti d’ora che i riflettori che illuminano a giorno il campo di calcio si rispengano per creare l’atmosfera che introdurrà gli Ultravox. La macchina del ghiaccio secco produce una cortina di fumo, una grande rete si eleva sino al soffitto costituito da una grande cupola.

Il palco degli Ultravox al Tursport, 02.09.1984 (Marcello Nitti © Geophonìe)

Comincia lo show … Warren Cann, rispetto al pubblico, è in alto a sinistra, una decina di gradini rispetto al resto della formazione arricchita per l’occasione da due “extramusicians” (un tastierista e un chitarrista-vocalista); Chris Cross oscilla tra basso e synths accanto a Billy Currie che non smetterà per tutto il programma di saltellare c incoraggiare il pubblico. Al centro Midge Ure, il mattatore. Imbraccia spesso la chitarra, canta, si sbraccia, polarizza l’attenzione con quel carisma che sprizza da tutti i pori. E’ magnifico, una voce incredibile.

Non c’è la «sorpassata» asta per microfono; Midge ha indosso un microfono a batteria, molto somigliante a quelli adottati dai piloti di aerei. Chi è accomodato davanti al palco non resiste e si alza in piedi, scandisce il ritmo battendo le mani, percuotendo i barattoli di Coca Cola, allunga le mini per sfiorare Ure che stringe decine di mani. È elegante anche nel più naturale dei movimenti. Alle spalle una scenografia in nero, Cross, Cann e Currie vestiti di bianco. Ure in nero. Ogni canzone, da  “Passing stranger”  a  “The man of two worlds» ha una scansione ritmica coinvolgente. I ragazzi conoscono a memoria tutte le musiche, qualcuno anche le parole. Si ascoltano grida di gioia quando cominciano le prime note di  “Vienna”. Ure si snoda, lancia acuti, i ragazzi si spellano le mani. Molte ragazze salgono in groppa al proprio boy-friend, non stanno un minuto ferme, fanno scena attratte dal flusso che i quattro musicisti sprigionano dal palco.

Midge Ure, 02.09.1984, Taranto, Tursport Club (Marcello Nitti © Geophonìe)

Stesso entusiasmo riservano i ragazzi a «Vision in blue», motivo incredibilmente bello | utilizzato lo scorso anno anche in discoteca. La musica è raffinatissima. Si consuma allo stesso modo, con i cori che si elevano dalla marea di gente  accalcata sotto il palco, “White China”. Grande successo ottengono tutti i motivi interpretati dai quattro folletti (Currie lascia le sue tastiere solo per suonare il violino). Accoglienza notevole riservata anche per “Reap the wild wind” e “Lament” che sentiremo verso la fine. È un vero crescendo che culmina con «The voice», Cann abbandona «drums» e altri aggeggi e scende sul palco. Ure ha cominciato i battere sulle sue percussioni, accanto a lui si affiancano Cross e Currie. Tutti e quattro in fila. Un colpo d’occhio suggestivo, percuotono da matti il ritmo del bellissimo “The volce”. Salutano il pubblico. ma tornano richiamati a gran voce, più o meno un minuto più tardi. Suonano “Dancing with tears in my eyes”, il motivo che ha  avuto come supporto un video ideato da Cross e Ure.

Ancora un supplemento di emozioni e Ure si congeda definitivamente, dopo aver presentato i suoi tre compagni, con un “Thank you, and good night”. Anche se gli applausi sono tanti, gli Ultravox non escono più. E’ finita così l’avventura tarantina di uno dei gruppi più quotati a livello internazionale. Nitti & Ture hanno avuto ragione una volta di più: è stato un bel concerto, una grossa proposta, a conferma di come Taranto, la Puglia in questo caso, viste le auto baresi, leccesi, brindisine che non si contavano tanto erano numerose, risponda a interessanti sollecitazioni. Una lunga carovana di auto, un ingorgo di quasi mezz’ora, le note del concerto appena registrato, le centinaia di ragazzi che sostano davanti alla vicina pizzeria, non sono gli unici dati di cronaca. Un’ora dopo sul viale Ionio (è più dell’una) ci sono ancora file indiane di ragazzi appiedati che alla vista di un’auto issano il pollice alla ricerca di uno “strappo” in città.

Claudio Frascella © Corriere del Giorno, 04.09.1984

02.09.1984. E stasera gli Ultravox.

Corriere Del Giorno, 02.09.1984 (Claudio Frascella)

Li abbiamo incontrati e intervistati. Al Tursport il concerto

Ieri era “day off”, giorno che precede l’avvio dell’European Tour e ultime ventiquattro ore di relax, prima di farsi inghiottire, come da prassi, da fotografi e giornalisti. Questo in teoria. Chris Cross, Warren Cann e Billy Currie (Midge Ure non c’è ancora, poi sapremo perché) sono dei veri gentlemen: si concedono a patto che La Fratta posi la sua macchina fotografica. Stasera Carmine-Clic si rifarà. Gli Ultravox tengono molto al look e il fatto che stiano nella hall in costume da bagno, dopo aver fatto il bagno in piscina, crea loro qualche problema. L’immagine è salva.

Sono stati fino a qualche minuto prima con un bel po’ di fans. Con loro hanno fatto due chiacchiere come se fossero veri amici: una grande disponibilità.

Currie ha un bel paio di Ray-Ban (l’ultimo tipo), sale un attimo in camera per scendere un paio di minuti più tardi. Sediamo sul comodo divano di fronte al bar. Con noi Chris Cross, Warren Cann e il ritardatario Billy Currie. Manca Midge Ure.

-Come siete arrivati a Taranto?

“Ognuno per i fatti suoi” – dicono, passandosi la parola – Warren e Billy in aereo da Londra passando per Roma e atterrando definitivamente a Brindisi. Lì qualcuno ad aspettarli e ad accompagnarli a Taranto, in albergo. “Io – dice Cross – sono andato prima in Germania, ho noleggiato un paio di Mercedes, con le quali viaggeremo per tutto il Tour, e poi di corsa a Taranto”.

-Midge non c’è. Doveva essere con voi già venerdì sera …

“Lui è un romanticone. Arriva in treno con l’Orient Express. Sta facendo la luna di miele …”

-Abbiamo dato uno sguardo allo stage: non siete solo in quattro in pedana.

E’ vero. Ci sono due, non sappiamo come li chiamate voi, “extramusician”, cioè due nostri collaboratori, un tastierista e un vocalista”.

Corriere del Giorno, 02.09.1984 © Claudio Frascella

-Chi parla di “Lament” ?

“E’ il disco del cambiamento” – attacca Currie seguito a ruota da Cross – “un lavoro di ricerca tecnologica, ma anche un modo diverso di lavorare: semplicità innanzitutto. Invece di stare due-tre mesi in studio, abbiamo deciso di lavorare a singoli progetti e poi ritrovarci insieme a discutere fino ad avere materiale per l’album. Pensate che ne è venuto fuori quasi un lavoro in diretta. “Lament” diciamo che oggi rispetta tutto quanto sono gli Ultravox. Lo spettacolo rispetta più o meno le stesse idee. Ci sono grandi effetti, luci bianche. Tutto studiato nei minimi particolari come è nel nostro stile, “cover” compresa. Ci conoscono come pignoli”.

-Come siete nel privato, ammesso che abbiate tempo libero?

“Piace viaggiare” – dice Chris – “nonostante si  facciano tour, Midge è come noi. E’ scozzese e ama la vita all’aria aperta, senza grandi eccessi”.

-Vi infastidisce il termine “video-band”?

Quando ci dicono che siamo dei buoni musicisti e che oltre questo siamo anche ottimi sceneggiatori e registi di video, ci fa piacere. I nostri video li giriamo con Russel Marcuy, che insieme con Bob Giraldi è tra i migliori registi. Alcune produzioni sono nostre, dall’inizio alla fine. Abbiamo per primi ribaltato il concetto immagine-musica. Mentre la musica è stata sempre “sound track” (traccia sonora), per noi il video è “movie track” (traccia di immagini), le immagini di funzione del prodotto musicale. Ora è diventata la mania di tutti i gruppi, ma i primi siamo stati noi”.

-Gli ideatori del video?

“Io e Ure” – dice Cross – per il disco è un lavoro d’equipe. Tutti elaboriamo le idee degli altri. Non è vero ad esempio quanto dicono i giornali musicali, che noi litighiamo, che Ure lascia il gruppo o cose del genere. C’è una grande armonia tra noi. Poi Midge non si sente, tantomeno vuol considerarsi, leader”.

-Siete videocopiatissimi …

“Forse “One Small day”. Siamo legati a quel lavoro. Lo abbiamo realizzato sulle scogliere del Nord Inghilterra, tentando di dare al filmato tridimensionalità. A proposito di “Dancing with tears in my eyes” c’è l’interessante proposta di portarlo nelle scuole, farlo vedere ai bimbi per il delicato tema che tratta: cosa accadrebbe in caso di conflitto nucleare. Qui visualizziamo una situazione, al contrario di un pezzo esclusivamente musicale. Abbiamo realizzato il terzo video, “Lament”, il titolo del disco da cu è tratto. Oggi lo danno in TV (s’informano sul titolo del programma e poi ce lo ripetono: “Discoring”)”.

-Ce lo visualizzate un attimo?

“E’ basato sulla realtà: andiamo in giro con le nostre donne, saliamo su un pulmino: tutti via, tranne Midge che resta con la sua donna. Ti ho detto, è il romanticone del gruppo”.

-Parliamo dell’European Tour …

“Nove date in Italia. Questo significa, a conti fatti, rinunciare a notevoli guadagni. Avremmo potuto fare tre grossi concerti nei maggiori centri e poi voltare pagina, invece così abbiamo evitato a molti ragazzi di fare un po’ di strada. E’ la filosofia dell’ultimo tour inglese. Abbiamo fatto concerti in centri non molto grandi, restando nello stesso luogo alcuni giorni, due, tre, anche quattro, suonando in teatri non molto grandi, ma dando a tutti la possibilità di vederci, di ascoltarci. Dopo l’Italia, andiamo in Belgio, Olanda, Germania, Svezia, e Danimarca”.

-Poi?

“A ottobre a Londra alla “Wembley Arena” un “charity concert” (concerto di beneficienza) con Spandau, Duran, Simple e altri: otto-nove gruppi, per tante ore di musica. I biglietti costeranno tanto, ma nessuno prenderà una sterlina. Per queste iniziative siamo sempre disponibili”.

Una band di gentiluomini, come dicevamo. Tutti per bene. Sono un po’ il contrario di come una certa stampa dipinge le rockstar. Non sono Kean, genio e sregolatezza. Sono intellettuali e composti. Ognuno di loro ha interessi differenti e ciascuno dà una mano all’altro. Molto uniti, molto amici, hanno feeling.

Claudio Frascella © Corriere del Giorno 2.9.1984

17.11.1983. Un po’ di Parigi nei sogni di The The

Corriere Del Giorno, 17.11.1983

C’è anche un po’ di Parigi nei sogni di The The

ROCK/E’ uscito il primo “trentatrè” di Matt Johnson. Il titolo è “Soul Mining”.

Dopo quasi un anno di attesa, Matt Johnson in arte The The ci regala la sua prima opera a 33 giri, dal titolo “Soul Mining”. La label Some Bizarre ancora una volta ha colpito il bersaglio: gli album che produce possiedono un potenziale di vendita fra i più alti in Inghilterra (vedi Soft Cell, Marc and the Mambas, Psychic Tv).

Per questa occasione “Soul Mining” contiene un E.P. con una nuova versione di “Perfect”, già edita nei primi mesi di quest’anno. Dunque, il nostro Matt sembra essersi ripreso dal malanno agli occhi che fece penare la scena musicale. E qui naturalmente lo ritroviamo con tutto il suo buon gusto e con tutta la sua voglia di fare.

L’album contiene sette brani, fra i quali “Uncertain Smile” (già pubblicato come singolo lo scorso anno), brano riproposto con un nuovo abito: un piano jazzato a metà del pezzo insegue i sorrisi e gli ammiccamenti dei sogni di Matt, ci coinvolge e ci riempie di nuova forza. “Soul Mining” che dà il titolo all’album, insieme con “This is the day”, sono altre due gemme che vanno ad incastonarsi nella raccolta; la prima dolce e sensuale, la seconda ricca di colori e di atmosfere parigine dovute soprattutto alla fisarmonica.

Matt Johnson è bravo. Usa i synths con molto calore e preferisce i colori vivaci, ma mescolati in nuove soluzioni. Sicuramente il disco è consigliabile a tutti, e non esiste pericolo che il lungo ascolto conduca alla noia, dato che ogni composizione contiene momenti intimi e suggestivi. Valido è l’aiuto degli amici di Matt, come Zeke Haniyka alla batteria (quello degli Orange Juice) o Camille Hand al basso.

L’affiatamento è evidente, anche dovuto all’abilità di Matt in sala di registrazione. Quindi dopo lo scioglimento dei Soft Cell, Matt Johnson è diventato la punta di diamante della Some Bizarre e Stevo, boss dell’etichetta, sta già pensando a un 1984 in grande stile per il suo pupillio. Interessante anche il design in copertina. Una donna consumata dal vizio e certamente dura, disegnata a tratti frastagliati.

Marcello Nitti © Geophonìe

30.04.1983. Teardrop Explodes

Corriere Del Giorno, 30.04.1983

Noi orfani di Cope, rimasti senza lacrime.

Il grande autore ha detto “basta”. Dopo il successo di “Kilimanjaro” della “Goccia di lacrime che esplode”, è uscito un doppio 45 giri: l’ultimo.

E’ quasi sempre così. Le cose belle sono destinate a finire presto, molto presto. Julian Cope, cantore degli anni Ottanta, ha chiuso bottega con la sua più bella creazione, i “Teardrop Explodes”.

E adesso più che mai ci accorgiamo di quanto il gruppo di Liverpool sia stato determinante, in qualità di fenomeno musicale, in questi ultimi anni, insieme con gli “Echo and The Bunnymen” e i “Wah! Heat” di Pete Wylie. Anzi si può dire che questi tre gruppi abbiano costituito ossa, carne e anima di una musica profonda e spirituale. Non a caso qualcuno li battezzò gruppi della “nuova psichedelia”.

Dopo aver pubblicato alcuni singoli, i Teardrop Explodes proposero l’attesissimo “Kilimanjaro” nel quale erano contenuti i capolavori “Reward” , “Sleeping Gas” e “Treason”. In “Kilimanjaro” si poteva respirare un’aria di bosco, le composizioni erano piccoli gioielli di sincera umanità, Julian Cope rappresentava la massima espressione e la sua voce era quanto di più emozionante circolasse.

Purtroppo la sua personalità era preponderante e in seno al gruppo furono effettuate alcune sostituzioni. Si pensò che a “Kilimanjaro” non ci sarebbe stato degno seguito. Ma i fedeli di Cope si chiamavano Troy Tate e Dave Balfa, i quali con lo stesso Julian rimisero in piedi “La goccia di lacrima che esplode”. Fu un colpo fortunato. Nell’81 venne alla luce “Wilder” e questa volta le lacrime erano una, dieci, cento…

Tutti parlarono di santificazione: Julian Cope godeva del più sacrale dei rispetti e brani come “The  great dominions” o  “Tiny Children” lasciarono veramente versare lacrime di poesia.

A quel punto i Teardrop Explodes, o più semplicemente la creatura di Julian Cope, erano qualcosa di sacro. Adesso però Julian Cope ha detto basta. Troppi i conflitti con i suoi amici, troppa la paura. Così esce in questi giorni un epitaffio del gruppo in un doppio 45 giri che già il mio piatto sta consumando. Sperando che Julian Cope ci ripensi.

Marcello Nitti © Geophonìe

07.07.1983. Anno 1983: i Simple Minds.

 

Corriere del Giorno, 07.07.1983

A Taranto stasera il gruppo rock (Tursport) presenterà brani in anteprima assoluta.

Il concerto sarà registrato per un disco “live”.

Per i Simple Minds, quello di stasera alle 21,30 è il primo concerto nel meridione d’Italia. L’attesa, inutile nasconderlo, è enorme e febbrile. Lo spettacolo oltretutto giunge in un momento magico e congeniale ai Simple: il loro ultimo album “New Gold Dream” li ha definitivamente rivelati al pubblico italiano.

I Simple, in una parola, sono ormai familiari dappertutto, radio, tivù, quotidiani, riviste e, non ultime, le discoteche. Possiamo fornire qualche notizia di gustosa esclusività.

Anzitutto, nel pomeriggio di oggi, prima del concerto, i Simple Minds saranno protagonisti di un filmato che gireranno in proprio lungo gli arenili della nostra litoranea: pare che a questo proposito siano stati consigliati da un altro grande gruppo rock, i New Order, che lo scorso anno fecero tappa a Taranto.

Seconda interessante notizia, il concerto di stasera sarà interamente registrato per un evenutale inserimento di alcuni brani in un disco live ufficiale dei Simple.

 

Terza notizia, molto probabilmente a Taranto Jim Kerr (il cantante dei Simple Minds) proporrà nuovi brani che andranno a far parte del nuovo album. Kerr ha infatti dichiarato che Michael McNeil ha composto melodie nuove di zecca che saranno proposte in anteprima assoluta. Per ora è tutto. Non ci resta che salutarli di persona, i quattro scozzesi.

Marcello Nitti © Geophonìe.

MARC AND THE MAMBAS/ «Torment and Toreros»

 

 

Ecco il rock da corrida. Da Londra, però, giungono notizie di un certo disimpegno.

Eccolo in vetrina, «Torment and Toreros», opera sublime di Marc Almond o Marc and the Mambas. Per la verità, stando alle ultime notizie che giungono da Londra, i Soft Cell hanno cessato di esistere e così pure (forse) Marc and the Mambas.

Ma, senza nulla togliere alla ufficialità delle cose, torniamo a parlare di questo doppio album che era stato preceduto dall’ Lp «Black heart» e che ci propone un lavoro concept (a tema unico) esclusivamente basato sui costumi e sul folklore spagnolo.

Voglio subito dire che l’album è da non perdere e che appartiene a un Marc Almond al massimo della sua genialità compositiva.

Lui, che è nato nella pallida Inghilterra, ha saputo schiacciare perfettamente nei solchi di «Torment and Toreros» tutto il profumo dell’anima spagnola, grazie a composizioni attraversate da calde passionalità e amori incontrollabili che ci trasportano sulla sabbia dell’arena o nelle fragranti taverne spagnole lungo la costa. L’album contiene anche un remake di «The bulls” (i tori), amatissima composizione di Jacques Brel, e una miscellanea con «Narcissus, Gloomy Sunday e Vision», una composizione di Peter Hammill (vi ricordate dei Van der Graf Generator?).

Marc Almond si fa aiutare dai Mambas, abbiamo detto, e i Mambas sono: Annie Hogan a piano e voce, Steve Sherlock al sax e al flauto, Lee Jenkinson alla chitarra, al basso e alla batteria, più le «The Venomettes» che prevalentemente suonano gli archi di accompagnamento e Matt Johnson (alias The The) alla chitarra.

Volete conoscere qualche sensazione che suscita l’album? Cascate di colori, di umori, di serenità…

Marcello Nitti © Geophonìe

30.12.1983. Quella notte a Ginevra: Lowembrau e Snikefinger

 

Corriere Del Giorno, 30.12.1983

Il fatto che Snikefinger avrebbe tenuto un concerto (4 dicembre) al “Bouffon” di Ginevra, mi fece ritardare la partenza per l’Italia. La speranza era di assistere a qualcosa di particolare.

Il “Bouffon” è un locale gestito da giovani. Un bar con musica da sottofondo, pareti-graffiti e un’aula-concerti (che raccoglie non più di duecento spettatori).

Acquisto il biglietto. Mi tiene compagnia una “lowembrau”. Con aria interessata perlustro la sala fino ad incontrare e conoscere Laurence, una energica ragazza bionda. Laurence, per spirito di avventura, organizza i concerti (anche dal punto di vista economico).

Quando in sala non ci sono più di ottanta persone, salgono sul palco 7 elementi che immediatamente m i fanno ricordare la New York degli anni post-bellici. I nostri eroi indossano abiti scuri, smoking o frac. Prendono possesso dei rispettivi strumenti. “Snakefinger” colpisce ancora. Snakefinger ha sempre lavorato nella sua California: i suoi lavori sono bracciali di semplici pazzie elettroniche. Notevole il contributo dei misteriosi Residents.

Richard Marriot (sax tenore e trombone), Carl Beitel (sax tenore), Steven Kay (sax tenore e contralto), Eric Feldman (basso), Borghit Ryan (batteria), Youshua Ende (tastiere), Miguel Bertel (chitarra solista), Snikefinger (voce, chitarra e piano) danno vita ad uno spettacolo “vivo” ed eccitante. I visi dei ragazzi, divertiti. Qualcuno improvvisa balli “strampalati” al ritmo di quella musica “swingante”. Per un’ora e mezza Snakefinger trascina tutti noi nel magico mondo del blues. Propone brani dei più grandi talenti del vecchio ”rythm” : Muddy Waters, Buddy Guy, Tampa Red, Memphis Slim, Skip James, Howlin Wolf, Reverendo Johnson e altri ancora.

Marcello Nitti © Geophonìe

 

 

La new wave in lutto. Sciolti tre gruppi.

 

Come fulmini a ciel sereno rimbalzano d’Oltremanica notizie che lasciano increduli e senza parole. Tre dei maggiori gruppi d’Europa, tra i più amati e seguiti, hanno dichiarato di essersi sciolti.

Stiamo parlando dei Bauhaus, dei Soft Cell e dei Rip Rig & Panic. I Bauhaus hanno appena pubblicato “Burning from the inside” e David J., il bassista, in un’intervista rilasciata questa settimana, ha ammesso di avere già nel cassetto un nuovo lavoro e che Peter Muprhy molto probabilmente lavorerà con (udite! udite!) Alan Rankine degli Associates, mentre Kevin Haskins e Daniel Ash continueranno a lavorare insieme.

I Soft Cell si trovano d’altra parte all’apice del loro successo. Le agenzie italiane hanno sempre fatto il possibile per farli esibire in Italia e ora giunge notizia che Marc Almond non ci sta più.

Almond ha da parte sua dichiarato che la stampa britannica si è “macchiata” della colpa di non aver suffragato il suo lavoro come Marc And The Mambas con l’album “Tormentos and Toreadores”, preferendo il suo impegno con i Soft Cell. Ad ogni modo, a sentire lui, l’affare Soft Cell e Marc And The Mambas è chiuso per sempre.

I Rip Rig & Panic, dopo l’album “Attitude”, hanno preso ognuno la propria strada, lasciando la bocca amara agli affezionati. Ma non è finita qua. Anche i Kajagogo, quelli di “Too Shy” accusano una defezione: pare infatti che il cantante “zitto zitto” voglia fare qualcos’altro.

Si può affermare che la new wave perde almeno 3 gruppi fondamentali. In particolare i Bauhaus proprio adesso avevano consacrato il successo anche in campo cinematografico grazie a Tony Scotto, il regista di “Myriam si sveglia a mezzanotte”, con David Bowie e Catherine Deneuve.  Scotto ha infatti inserito nella colonna sonora del film l’inno dei Bauhaus “Bela Lugosi’s Dead”.

Marcello Nitti © Geophonìe

I magnifici tre: Depeche, Hey! Elastica, Soft Cell

 

Periodo prenatalizio e di conseguenza le “label” cercano in tutti i modi di piazzare il singolo che potrebbe avere un immediato successo.

Di singoli, in verità, ne sono stati pubblicati a decine, dei più svariati stili e miscele musicali: funk-rock, rock-disco,e via dicendo. Ma quello che più sconcerta è il preoccupante dilagare di singoli fatti per essere ascoltati e ballati in discoteca, a parte pochi eletti.

Anche i magnifici New Order hanno il loro singolo in testa alla classifiche inglesi, quel “Confusion” che ha spaccato i grandi nostalgici dei Joy Division.

Un nuovo gruppo che  ancora non riesce a pubblicare un album, ma che ha prodotto tre E.P. è “Hey! Elastica”, nome buffo e simpatico per un gruppo di quattro ragazzotti (prima erano in sei): Bee Mc Vicar, Shez, Giles e Samantha Swanson, coprotagonisti di “Party Games”, il loro pezzo forte. Il brano è ben strutturato e possiede una poderosa sezione ritmica molto rock anno 80 dove vengono innestate le voci e i cori delle ragazze, in ampio stile americano. Il tutto risulta godibilissimo e assai ballabile, a tratti swingante per la bella presenza dei fiati. La produzione è opera di Martin Rushent, già con gli Human Leauge e Alfred Images. Credo che Martin voglia portare al successo anche questo gruppo, sostituendosi al vecchio produttore Tony Visconti che tutti voi ricorderete come braccio destro di Bowie.

Altro singolo che merita nota è quello dei Depeche Mode, gruppo che da poco ha concluso una tournee in Italia. Il singolo in questione è “Love in itself”, già contenuto nell’ultimo album. La novità sta nel lato “b”, che ruota straordinariamente a 33 giri invece dei consueti 45 e contiene ben 4 brani dal vivo, registrati a Londra il 25 ottobre dello scorso anno (“Just can’t get enough”, “A photograph of you”, “Shout”, “Photografic”). Inutile dire che questi menestrelli dell’elettronica hanno indiscussa padronanza del proprio sound e che ogni disco è un saggio di dolci e allegre ballate elettroniche con il gusto del bambino supereducato. Un singolo per collezionisti, in definitiva.

E per concludere, un singolo del Soft Cell, a mio parere il gruppo più sapido dell’elettronica pop inglese. Dopo le dichiarazioni di scioglimento del duo per iniziativa di Marc Almond, la loro “label” pubblica questo “Soul Inside” registrato sicuramente in tempo di pace, ma che mostra un Almond nervoso e accigliato. Ne viene fuori un brano inquieto ma ricco dei soliti “celliani” che hanno ormai consacrato i “Soft Cell” come gruppo pop-elettronico degli Anni ’80. Sul retro due delizione novità: una nuova versione di “Loving you – hating me”, già inclusa nel felice album “The art of falling apart” (qui completamente remixata) e infine una versione della colonna sonora del film “Si vive solo due volte” (James Bond). Buon Ascolto.

Marcello Nitti © Geophonìe

05.06.1983.   “Whammy” dei B 52’S

 

Corriere del Giorno, 05.06.1983

DISCHINOVITA’ / “Whammy” dei B 52’S
Siam facili profeti questo è un successo.

I B 52’s tra il ’79 e l’80 pubblicarono due album che ebbero un discreto successo: ad essi appartenevano due momenti particolarmente felici, i brani “Planet Claire” e “Devil in my car”. Caratterizzanti.

E’ il caso comunque di spendere due parole sul gruppo: sono in cinque (due donne), vestono sixties e hanno meno di 25 anni, si sono conosciuti all’università dove facevano musica creando casini alla “Blues Brothers”. La loro musica è una spietata miscela di rock’n’roll con coretti sixties e ritmica da ballare.

E’ naturale che all’ascolto il gradimento sarà soggettivo, ma loro risultano simpatici a molti e riuscirono lo scorso anno a pubblicare un mini-ellepì con la produzione di David Byrne dei Talking Heads. L’album si chiamava “Mesopotamia” e fu una delusione, i pezzi erano anonimi e senza nerbo: non bastò l’apporto di Byrne. Con molte probabilità la confusione, nella fase di realizzazione, fu molta e la causa è da ricercare nella prepotenza inesorabile di ciascun elemento, da cui dispersione e  un risultato certo non eccellente.

Qui però va detto che proprio questa “caduta” ha determinato una pausa di riflessione del gruppo, che adesso pubblica “Whammy!”, nuovo album e nuovo corso, con una grinta ritrovate e canzoni taglientissime. La formazione non è stata alterata, l’album è ben curato, ed è stato accompagnato dall’uscita di un doppio 45 giri che include una nuova versione di “Planet Claire”.

Non è difficile profetizzate che questo disco sarà molto usato e goduto nelle discoteche e non è altrettanto difficile prevedere per “Whammy Kisses” un’attenzione particolare. In definitiva un ottimo lavoro, però come tutte le belle cose, non ascoltatelo troppo. Potrebbe stancarvi.

Marcello Nitti © Geophonìe

 

 

01.09.1984. Ultravox. Cronaca di un arrivo.

 

A Taranto gli Ultravox.

Corriere del Giorno, 01.09.1984

Domani sera al Tursport (nel campo di calcio) l’attesissimo concerto che aprirà il tour europeo del complesso rock.

Cominciati i sopralluoghi. Poi il relax: piscina, passeggiate in città, donne e birra.

Puntualissima come nello stile inglese, ieri pomeriggio è arrivata la prima parte della carovana degli Ultravox. Il gruppo inglese che da domani, con il concerto tarantino del Tursport, prende il via per la tournèe europea. Il quartier generale è l’Hotel Delfino.

Indescrivibile l’atmosfera che ha immediatamente popolato la hall dell’albergo dopo le 16,30. Il portiere che a malapena riesce a distribuire le chiavi di ciascuna stanza prenotata con largo anticipo, gli zaini e gli imponenti valigioni, su cui sono incollati adesivi a non finire, abbandonati qua e là. Una sarabanda di tipi e di colori. Chi con i capelli lunghi, chi con la chioma rasata, chi con stivaloni chi con ciabatte (o addirittura a piedi scalzi). Il fattore che immediatamente li accomuna, oltre a una invidiabile serie di magliette con su scritto i nomi di altri prestigiosi gruppi del Regno Unito (Duran, Simple, Spandau o Sky), è una prima ricognizione al bar dello stesso albergo: birra per tutti e fuori sull’enorme balconata a godere il panorama, schizzandosi sulla faccia la birra che esce dal barattolo dopo averlo violentemente agitato. Non si contano le gags. Qualcuno brontola, qualcun altro lo sfotte: uno ha un walkman e ascolta musica, un altro lascia cadere gli indumenti nella hall e va a fare il bagno in piscina. Tutti insieme bissano la prima lattina di birra. Tra una birra e l’altra giunge la notizia dal road manager, che l’appuntamento, più tardi sempre nella sala d’aspetto, con gli organizzatori locali è fissato per le 18.

Cominciano i primi sopralluoghi al Tursport: è una carovana di auto diesel, tutte con targhe inglese, un paio di camper. Per strada, lungo Viale Virgilio, chi in auto, chi a passeggio, si volta a guardare la fila di mezzi: “è arrivato il circo americano”, dice qualcuno; “no, le taghe GB sono inglesi, può essere quello di Billy Smart”, commentano altri. Ma niente di tutto questo, anche se la carovana ha qualcosa di circense, oltre alla vita gitana a cui sono costretti artisti e tecnici. Sono una quindicina al sopralluogo. Restano soddisfatti dell’impianto, del campo di calcio su cui  monteranno l’imponente palco. Come geometri incaricati dal Comune, fanno calcoli a mente e tracciano solchi; qui va lo stage, qui le transenne. I Tir, numerosi, sarà un problema parcheggiarli tutti all’interno. Dentro questi grossi mezzi, enormi cassoni con su scritto a vernice bianca: Cann, Cross, Currie e Ure: gli Ultravox. Ognuno di loro con la strumentazione occupa quasi un Tit. Warren, Chris, Billy arrivano più tardi. Midge in serata. Si godono gli ultimi scampoli di relax, da domani al lavoro. Midge Ure e Chris Cross, uno chitarrista e voce, l’altro bassista e tastierista, in Italia sono di casa. Appassionati di motori spesso trascorrono tra la Francia e l’Italia un bel po’ di ferie. In Francia, come scrivemmo tempo fa, durante un viaggio di piacere i due musicisti inglesi sono stati alleggeriti di mezzi e bagagli: ora amano solo l’Italia, Venezia in particolare…

Hanno voluto dedicare proprio al nostro Paese le primissime date dell’european tour, un banco di prova importantissimo. Nel corso dei concerti Ure e i suoi compagni dovranno ribadire l’indiscutibile leadership in campo rock di cui godono da anni attraverso una serie di avvicendamenti e svolte musicali. Ogni scelta, lo ripetiamo, è stata ragionata: gli Ultravox con intelligenza hanno amministrato la loro immagine fino ad essere sofisticati nel look e nel suono. Incravattati anziché no, hanno realizzato uns stupendo video (uno della serie che vedremo stasera e in replica domani pomeriggio su Italia Unoa “D.J. Television” condotta da Claudio Cecchetto), quel “Dancing with tears in my eyes” che riesce a dare grande spessore al tessuto musicale. I clips sono diventati l’autentica forza della formazione, “Lament”, il recente album della band, è stato per intero visualizzato. Primo posto in classifica (discografica e video).

E torniamo al concerto di domani al Tursport. E’ la vigilia e diventa un dovere dare un paio di suggerimenti a chi fosse interessato ad assistere allo spettacolo: per chi non avesse acquistato il biglietto suggeriamo di farlo in prevendita evitando così lunghe file ai botteghini o, peggio ancora, di cadere nelle grinfie dei soliti bagarini che venderanno gli ingressi a prezzi elevatissimi. Altro suggerimento, per evitare lunghe code o intasamenti con le auto, è quello di seguire le numerose segnalazioni seminate lungo il vialone che porta in via del Faro, a San Vito. C’è un capiente parcheggio per oltre tremila auto.

Claudio Frascella  (Archivio Geophonìe)

27.06.1984. “The Top” : Robert Smith è tornato a casa Cure

Corriere Del Giorno, 27.06.1984.

Dopo un’assenza di due anni, ritorna Robert Smith con i suoi “Cure” in versione L.P. senza nascondere un aumentato interesse nei confronti del gruppo che parte dai fans, dopo le varie voci che circolavano pretendendo uno scioglimento dei ‘tre ragazzi immaginari’, voci che si rafforzano nell’apprendere la presenza di Robert Smith dal dicembre ’82 nei “Siouxsie and The Banshees” e nella pubblicazione di un album favoloso con la collaborazione di Steve Severin a nome “The Glove”.

La speranza che i Cure fossero ancora vivi era data dalla pubblicazione di ben quattro singoli. “Let’s go to bed”, brano orecchiabile, molto piacevole e mandato anche in discoteca. “The upstair’s room”, tipico ”suono Cure” , “The Lovecats”, brano bellissimo, insolito perché forzato, ed infine “The Caterpillar”, una bellissima ballata acustica con chitarra e piano pizzicato che ci presenta il nuovo album dei Cure, “The Top”. L’album con una copertina orientaleggiante e impregnata di simboli, si apre con “Shake Dog Shake”, brano tipico che richiama subito “Pornography”, precedente capolavoro del gruppo;

Ma è con “Birdman Girl” che si avvertono tendenza e melodia spagnoleggianti, che già il singolo “The Caterpillar” aveva annunciato. La voce di Robert, ormai particolare e riconoscibilissima, ci accompagna con mano nei meandri dei suoi sogni, “Wailing Wall” e “The empty world” sono certamente nate dal bisogno di non dimenticare un passato così bello e pieno di fede. A poco a poco ci si rende conto che tutto è un viaggio nella stanza della nostra mente, dove su altari sono poggiati i nostri desideri;  mentre nei corridoi siamo inseguiti da mani che gridano e ci toccano con odioso sudore come in “Give me it”.

Il vertice dei Cure è raggiunto in “The Caterpillar”, solenne ballata rivolta a tutti i cuori; in “Dressing up” con musica orientale da incantesimo ed in “The Top” commovente invito a tornare indietro ed a sorridere con rinnovata maturità.

In sintesi un album sempre bello, che oltre a vedere Robert Smith e Laurence Tolhrust, padroni del marchio “The Cure” ci sono ad aiutarli Andy Anderson alla batteria e Porl Thompson al sax.

Marcello Nitti © Geophonìe

01.05.1982. La stagione musicale al Tursport

 

Tanto per cominciare sabato i “Bauhaus”.

Sabato 1 maggio alle 21 saranno di scena nel palazzetto Tursport a San Vito i Bauhaus, il gruppo New Wave che sta riscuotendo successo in tutto il mondo. La serata-spettacolo, così è da definire, per la scenografia che la manifestazione offrirà, non è da considerare riservata esclusivamente agli appassionati del rock, ma un appuntamento d’eccezione con un vero e proprio spettacolo a livello mondiale. Ad organizzarla è stato il responsabile del settore musicale di Tursport Marcello Nitti che riuscirà a portare a Taranto anche altri noti gruppi musicali di notevole levatura.

L’estate alle porte sarà infatti occasione lieta per l’organizzazione di concerti, serate d’ascolto e grossi spettacoli che il Tursport sta programmando con la partecipazione di grossi nomi della canzone internazionale e nazionale.

Il gruppo dei Bauhaus è  composto da Peter Murphy, David Jay, Kevin Haskins, Daniel Ash. Hanno fatto la loro prima apparizione in Italia nel luglio 1981 al “Festival per i Fantasmi del Futuro Electra 1”.

 

DISCHINOVITA’ / New Order

 

Corriere Del Giorno, luglio 1983

Potere, corruzione e bugie

Confesso di avere grandi difficoltà nel parlare risparmiandomi in lodi del nuovo lavoro dei New Order. Nessuno di noi ha dimenticato la loro venuta a Taranto (19 giugno 1982) quando salutarono il pubblico con la promessa di ritornarvi. Per ora accontentiamoci di ascoltare il loro secondo album pubblicato in questi giorni in italia sotto il titolo “Power, corruption and lies” ovvero “Potere, corruzione e bugie”, con una splendida copertina che è poi una splendida natura morta (rose) custodita nella National Gallery di Londra.

Peter Hook (basso, chitarra), Gillian Gilbert (synths), David Morris (batteria) e Bernard Dickin (chitarra, voce) sono dunque tornati dopo diciotto mesi e al primo, intero ascolto del loro ultimo album si nota la riuscita alleanza che synths e chitarre hanno definitivamente conclamato.

Questa è musica che allaga di venti primavere le valli più profonde, “Leave me alone”, che sigla in maniera imperiale l’ellepì, è musica di piccole onde che rotolando sulla battigia. “Your silent face” non è altro che una poesia che scende giù come le gocce di pioggia alla finestra. “The village”, già proposta dal vivo a Taranto, è una ballata elettronica molto dolce, che ricorda volti di bimbi ammaliati dalle giostre. In “Ultraviolence” invece i toni si fanno più duri, i ritmi si moltiplicano e ne sortisce una cascata di colori. Ma è in “Age of consent” che nasce forte e netta la forza dei New Order e subito ti rammenti del loro passato: “Ceremony”, “Procession”, “Temptation” e “Dreams never end” e capisci che la loro è una colonna sonora che va bene a ciascun istante della tua vita.

Marcello Nitti © Geophonìe

19.06.1982. I New Order al Tursport

 

Corriere Del Giorno, 15.06.1982

Un altro spettacolare appuntamento con la musica rock al Tursport. Sabato 19 giugno saranno di scena nel palazzetto a San Vito i New Order in concerto. E’ sicuramente il gruppo rock attualmente più amato  e più seguito dai giovani appassionati a questo genere musicale. I New Order possono essere meglio ricordati come Joy Division, era questo il nome del complesso fino a due anni fa.

Dopo i Bauhaus, i New Order sono il secondo gruppo di fama mondiale a scendere qui a Taranto. E proprio a seguito del successo musicale e di incasi riscosso in quell’occasione, si prevede, con la serata di sabato 19 giugno, un secondo “pienone” nel palazzetto del Tursport.

Anche i New Order sono messaggeri di un tipo di rock piuttosto tagliente ma che suscita allo stesso tempo emozioni indimenticabili con una scenografia senza precedenti. Con il concerto di Taranto saranno in Italia per la prima volta. Già da numerosi centri della Puglia sono pervenute massicce prenotazioni da parte di giovani interessati ad un appuntamento musicale senza precedenti e di portata davvero mondiale. Lo spettacolo avrà inizio alle ore 22.

Marcello Nitti © Geophonìe

1983. David Bowie

 

Corriere Del Giorno, 1983

David Bowie, un singolo “riscaldato”

Durante il suo tour forse una tappa in Italia

Attesa tournèè di David Bowie, che ha pubblicato da pochi giorni il singolo “Let’s Dance”. Il prodotto è frutto di una collaborazone con Nile Rodgers, meglio conosciuto come il creatore degli “Chic”, che fra le altre cose ha scritto anche per Diana Ross ed altri. Il risultato è deludente per non dire fallimentare, e il singolo – che farà in ogni caso il giro del mondo – non è altro che una “song” di sette minuti con i tipici suoni alla “Chic”.

In definitiva un risultato di ovvia disco-music, che verrà dimenticato in poco tempo. Il retro del singolo contiene una versione inutile di “Putting Out Fire”. In colclusione è bene che attendiamo l’uscita del nuovo album, che a quanto informa la stampa americana si chiamerà come il singolo, “Let’s Dance”.

Per il suo giro europeo già molte sono le date stabilite. Il tour prevedeva tappe in Francia, Germania, Inghilterra, Olanda, Austria e forse in Italia, dove si sta studiando la possibilità di effettuare almeno uno spettacolo.

Per il momento in Italia ci saranno le esibizioni di gruppi come Polyrock (USA), Modern English e Blue Rondo a la Durk (GB). Come novità discografiche, tra le tante di questa primavera è da segnalare l’uscita del gruppo “Duet Emmo” meglio conosciuti come Lewie e Gilbert, ex Wire, che finalmente ci propongono suoni più accessibili e godibili. L’album è edito da Mute Record.

Marcello Nitti © Geophonìe

26.05.1983. David Bowie

 

 

Corriere Del Giorno, 26.05.1983

Una corte di miracoli per il bel Duca Bianco

Siamo andati a Monaco sulla rotta di David Bowie, l’indiscussa rockstar del momento.

Diecimila fans in una situazione da delirio. 

Bowie non ha centrato il concerto. E’ stato accompagnato da un gruppo di musicisti che ha deluso: non andava al di là di una bravura artigianale.

Lui è stato grande quando, impugnato il sax, ha intonato Modern Love.

 

MONACO – A cinque anni dalla sua ultima apparizione, è tornato il Duca Bianco. David Bowie si è riaffacciato sui palcoscenici il 18 maggio scorso, a Bruxelles, incensata alba dei riti di questa sua lunga tournèe mondiale.

Il 1983 sembra essere il suo anno “in”: due films di successo, presentati all’ultimo festival di Cannes (“The Hanger”) con Catherine Denevue e “Merry Christmas Mr. Lawrence” del giapponese Oshima); un album coprodotto con Nile Rodgers degli “Chic” e infine questa imponente escursione mondiale.

A Monaco, dove sono andato a vederlo, i biglietti erano esauriti da oltre due mesi, tolta una piccola scorta che il botteghino ha venduto centellinandola come si trattasse di diamanti (i prezzi alle stelle).

Quando sono giunto a Monaco – cuore del bifronte “continente Germania”, capitale della Baviera operaia – sapevo di assistere a qualcosa di storico. Premunitomi acquistando i biglietti di entrambe le serate (sabato 21 e domenica 22), la sera del sabato alle nove e un quarto, con soli 15 minuti di ritardo, nello strabbocchevole “Olimpiahalle” di avveniristica concezione, David Bowie fa il suo ingresso accolto dall’ovazione di forse 10-15mila spettatori. Echeggiano subito le prime note di “Jane Genie”, ma è un bluff. Ed ecco, poderose “star”, si accendono le luci: Bowie è addobbato con un abito verdeacqua, cravatta, bretelle e … la sua voce.

Non sono pochi a vederlo per la prima volta dal vivo. Assisto, in una situazione da delirio collettivo, a volti inebetiti, sorridenti, abbacinati. Non mi sfiora il minimo dubbio: qui lo amano tutti. Ti guardi intorno e vedi che ci sono molti italiani: Monaco, non dimentichiamolo, è zeppa di emigrati, è una metropoli industriale, una città formicolante di operai. Ad ogni brano la folla deliquia: “Heroes”, “Wild is the wind”, “Fashion”, “Let’s Dance”, il fortunatissimo singolo “Cat People” scritto con Giorgio Moroder. Ma il pezzo forte del primo tempo è indubbiamente “Scary Monsters”, siglato da un vibrare impazzito di luminosità verdi che ricordano non a caso il Super-ragno della canzone.

Ma piano piano ti accorgi che qualche cosa non va, non funziona. I musicisti sono poco interessati, vivono come in una situazione altra, esterna. Il batterista, Tony Thompson degli “Chic” porta soltanto il tempo e non è buono per suonare brani come “Ashes to Ashes” o “Hang on to yourself”. Il bassista Carmine Rojan sembra che non ci sia. E il chitarrista Earl Slick insegue il fantasma pendulo di Jimi Hendrix.

Si capisce subito che i musicisti sono solamente degli ottimi artigiani, degli ottimi mestieranti e che comunque non possono andare al di là dei loro profondi limiti creativi. Ergo: solo Bowie trascina un pubblico completamente eccitato alla sua vista.

Tuttavia va detto che il Duca Bianco non ha particolarmente centrato il suo concerto di Monaco. A suo vantaggio ha il fatto che il tutto è molto semplice, acqua e sapone, in un’epoca in cui si escogitano artifici di ogni colore pur di sbalordire. Indubbiamente la bravura di Bowie è venuta a galla, in tutta la sua potenza, specialmente nell’ultimo brano “Modern love”, in cui David ha suonato il sax alla grande.

Noi siamo sfiniti. Averlo visto è sempre una ricca esperienza. Col suo sorriso sottile si nasconde dietro una luna di cartapesta, se ne va e noi tutti a guardarci negli occhi e a camminare, di notte (notte fonda), fra semafori e lattine di birra.

Arrivederci Bowie, a Parigi, 8 giugno.

Marcello Nitti © Geophonìe

12.05.1983. Nick Heyward

 

 

 

Corriere Del Giorno, 12.05.1983

Il monarca Nick Heyward ha deciso, fa tutto da sé

Dopo aver abbandonato il gruppo “Haircut 100”. E’ uscito il suo singolo “Whistle down in the wind”. Non mancherà la polemica risposta del gruppo.

Nome assai strano quello degli “Haircut 100”, che tradotto è pari a dire “taglio di capelli cento”. In ogni caso siamo ormai abituati a cotanta stramberia. Gli Haircut 100 hanno a tutt’oggi pubblicato  un album e cinque singoli (1982). La loro musica era una miscela ben riuscita di vari stili musicali: samba, calipso, rock e pop, al punto da renderli unici e inconfondibili nei confini di quel sound.

Tutti brani di successo, tutti assai programmati in radio e in discoteca, ma, soprattutto, tutti firmati da Nick Heyward. Era lui in pratica il leader, l’archimede di quei successi e come solitamente accade ai monarchi assoluti – prima o poi sarebbe stato esautorato. La cronaca ci dice che mentre erano in corso le registrazioni di un secondo album Nick, giustamente, pretendeva che l’opera risultasse complessivamente di alto livello, senza limitarsi a produrre uno o due pezzi di successo e d’altro verso solo brani da dimenticare. Andò che l’egemonica presa di posizione di Nick sembrò tanto asfissiante che la realizzazione del lavoro fu interrotta (ma c’è ancora chi spera possa essere ripresa in coro). Nick salutando tutti lasciò il gruppo e si separò dal marchio “Haircut 100”, decidendo di seguire la propria strada.

A Londra, il Melody Maker e il New Musical Express hanno parlato a lungo di questa fronda da parte di Nick, non dimenticando di segnalare l’avvio quasi immediato del lavoro da solista dello stesso Heyward. Nick si fa accompagnare in studio da alcuni amici e, sorprendendo perfino i suoi vecchi “Haircut” prima ancora che essi si siano ripresi dalla sua perdita, pubblica il singolo “Whistle down in the wind”. Una pop song, stile Heyward al cento per cento. Mancano i fiati che lo hanno sempre contraddistinto: sono stati sostituiti però da un piano delizioso. E non c’è dubbio: la parte strumentale del brano è la più riuscita.

Non mancherà, crediamo, la risposta degli Haircut 100, che certo non hanno smarrito la voglia di successo. Anzi punteranno a far dimenticare l’esistenza di Nick ai suoi innumerevoli fans.

Marcello Nitti © Geophonìe

23.08.1983. Midge Ure e Mick Karn

 

Corriere Del Giorno, 23.08.1983

Il fascino della coppia

Raggiunto ormai un livello artistico abbastanza elevato in campo musicale, gli artisti vanno a caccia di collaborazioni esterne ai gruppi di origine per poter guadagnare ulteriori interessi al proprio lavoro. Caratteristica di questi ultimi mesi dell’83 è la pubblicazione di numerosi singoli (se non, in qualche caso, di albums) prodotti in coppia.

E’ il caso di Sylvian con Sakamoto, di Marc Almond con Matt Johnson, e ora di Midge Ure degli “Ultravox” insieme con Mick Karn, ex batterista dei “Japan”. I due hanno recentemente pubblicato un 45 giri e un E.P. (extended play) dal titolo “After a Fashion” (ovvero “Dopo una moda”) dove uniscono le forze per un brano che ricorda non da lontano gli Ultravox. Ma, al di là dei soliti paragoni, la composizione raggiunge la perfezione, e troviamo elementi d’ascolto abbastanza godibili: basso e batteria elettronica in simbiosi e sempre alla ricerca di solide  ragnatele: e poi la voce sempre più matura di Midge Ure.

Il tutto è farcito di tanti piccoli  arrangiamenti veramente notevoli (solo a pensarci): violini, mandolini elettronici (nella versione E.P.) e percussioni che accentuano le origini e le influenze di  Mick Karn e dei suoi ex Japan.

In sostanza in un futuro queste collaborazioni probabilmente aumenteranno. E visto che in campo musicale sono state tentate tutte le miscele possibili, non resta altro che immaginare quali nuove collaborazioni salteranno fuori.

Ad ogni modo l’esito della coppia Ure-Karn è senz’altro positivo e non è difficile ipotizzare che il lavoro della coppia sia andato al di là di “After a Fashion”, tanto che forse un album verrò a completare il loro rapporto artistico sfociato in un’avventura in Egitto.

Dimenticavo: il 45 giro e l’E.P. sono per il momento importati e costituiscono due versioni leggermente differenti. Io ai casalinghi consiglio la versione a 45, mentre per chi debba farne uso in discoteca o per radio, la versione più lunga dell’E.P. In ogni caso è un disco da non perdere.

Marcello Nitti © Geophonìe

12.08.1983. Bill Nelson

 

Corriere Del Giorno, 12.08.1983

E’ tornato l’amore.

“Chimera”, un mini-ellepì di Bill Nelson

Vi ricordate dei “Be Bop de-luxe”? Nel pieno degli anni Settanta pubblicavano anno dopo anno lavori molto interessanti, un rock mai di plastica. Ma i Be Bop forse furono rei di non aver avuto una hit-song che li consacrasse. In questo gruppo militava Bill Nelson, cuore e cervello dei “B.B. de-luxe”, che adesso ritroviamo nelle vesti di primattore.

Nelson è un polstrumentista che spazia tra synths, chitarre e percussioni elettroniche con naturalezza. Va detto inoltre che tutti i brani sono cantati e composti da lui. I suoi lavori più convincenti rispondono al titolo di “The love tath whirls” (l’amore che accarezza), che comprendeva un altro album in omaggio con una libea composizione di “la bella e la bestia” da Jean Cocteau, e “Chimera”, l’ultimo lavoro, un mini-lp (vengono chiamati così perché includono 5-6 brani al massimo).

Questa produzione conferma la fantasia e la poliedria di Bill che attualmente ha stretto legami di collaborazione con Mick Karn, l’ex batterista dei Japan, e con Yukihiro Takahashi, già con la “Yellow Magic Orchestra”. Lo  sviluppo dell’elettronica non trova in Bill Nelson un sostenitore della periferia, ma piuttosto un valido ricercatore nella jungla delle sette note.

Partito per il Giappone dove ha lavorato appunto con Yukihiro Takahashi, ha notevolemtne arricchito il suo sound con leggerissime sonorità. Le sue realizzazioni sono continue affrescature dove i colori hanno le tinte del basso sinuoso e sensuale di Mick Karn o dei synths veloci e gentili di Bill. A ogni modo si tratta di albums che non incontrano un vasto favore di pubblico per la semplice ragione che non trovano una collocazione fra i prodotti di “largo consumo”.

Non si può non aggiungere, a questo punto, che meritano molta attenzione i video realizzati da Bill, in particolare “Flaming Desire”, forse uno dei migliori video mai prodotti in Inghilterra. Alcuni fotogrammi possono essere ammirati nella copertina di “Chimera”.

Marcello Nitti  © Geophonìe

14.04.1983. I Romeo Void, California

 

Da San Francisco ecco i benefattori del rock.

14.04.1983 Corriere del Giorno

E’ americano, è solido, dal sound ben definito.

Sorvoliamo l’oceano. In California troviamo una città, San Francisco, in continuo fermento. Forse la città più europea degli States, la città dei Jefferson Airplane, dell’acid rock e dei dimenticati hippies.

Oggi anche a San Francisco aumentano gli stili: bands elettroniche, numerosi gruppi punks e decine di gruppi rock che hanno trovato nell’etichetta “415 Records” un valido aiuto per essere conosciuti nel mondo.

I Romeo Void sono autori di un rock tipico americano, ma con in più la voce di Debora Lyall la quale caratterizza con il suo modo rap (a volte) il loro sound. Si sono fatti conoscere nel 1981 con la pubblicazione di “It’s a condition” con una splendida copertina in grigio, che faceva capire come il gruppo si orientasse su modelli diversi dagli stereotipi americani.

“Myself to myself” contenuta nell’album era il loro brano che più faceva presa dal vivo. Ma l’affermazione i Romeo Void l’hanno ottenuta lo scorso anno con l’uscita del secondo album “Benefactor”, solido rock americano: basso e batteria, cuore e polmoni, e il sax sicuro ed efficace.

In “Benefactor” troviamo “Never say never” pubblicata come singolo alcuni mesi prima, autentico inno del gruppo. Il brano fa il giro del mondo e adesso il gruppo è particolarmente conosciuto in Inghilterra.

Complessivamente il sound dei Romeo Void è ben definito. L’unico rischio che corrono è quello di ripetersi se si lasceranno andare a un successo improvviso.  Per chi ama ancora quei gruppi che suonano un buon rock, non certo alla “Saxon” o “Wishbone Ash” potrà trovare in questa band californiana un nuovo punto di riferimento.

Marcello Nitti©Geophonìe

03.05.1983 La poltrona di The The

03.05.1983, Corriere Del Giorno

 

Caro Johnson

E’ uscito “Perfect” con un’armonica in bella evidenza

Caro Matt Johnson, hai soltanto ventun anni e già occupi una comoda poltrona in questa caotica “new wave”. E sì, signori, il buon Matt ( o “The The”, se preferite), ha trovato la formula del successo immediato con l’impiego del minimo sforzo. Anche per lui è stato utile fare la conoscenza di Stevo, boss dell’etichetta “Some Bizarre”, il quale in soli sei mesi gli ha fatto pubblicare due singoli di una bellezza rara.

Tuttavia Matt aveva già proposto alcune sue composizioni, che non erano andate al di là dell’ascolto critico da parte degli addetti ai lavori. I risultati non erano stati assai soddisfacenti, e quindi Matt pensò bene di introdursi più saggiamente nella giungla discografica.

Stevo lo affidò alle cure dell’entourage dei Soft Cell (dei quali avremo modo di parlare), produttori e ingegneri, e fu così che andò in gestazione l’esordio di “Uncertain smile”, primo capolavoro di Matt Johnson. Il brano, pubblicato come E.P. e come 45 giri, era permeato da un incedere così caldo e pulito che fu subito un successo; grazie anche a un preciso ritmo che ne ha fatto poi un inno da discoteca.

La sorpresa in “Uncertain smile” veniva soprattutto dall’uso dello xilofono che, quasi in primo piano, dava una ventata di novità alla composizione, esaltata inoltre dalla giusta e riposante voce di Matt che andava a fondersi incantevolmente con l’insieme.

Come dicevo, i singoli erano due e ripetere il successo del primo appariva arduo. Tuttavia a febbraio è uscito “Perfect”, dove abbiamo trovato in bella evidenza l’armonica suonata da David Johansonn (ex “New York Dolls”) e quasi tutti gli ingredienti del trascorso “Uncertain smile”.

“Perfect” si pone indiscutibilmente come brano di successo, raffinato e, oserei dire, di lusso.

“The The” è diventato una realtà: molti lo imitano, mentre noi aspettiamo un album intero da ascoltare sotto il prossimo sole.

Marcello Nitti © Geophonìe

22.04.1983. Ultravox, una lunga storia

 

 

Corriere del Giorno, 22.04.1983

Fu un colpo di fulmine.

Nel ’77 Brian Eno incontra John Foxx che ha da poco fondato gli Ultravox. Brian ne diventa il produttore e quello stesso anno pubblica il loro primo album.

La musica degli Ultravox era sottile e tagliente con una splendida voce di John Foxx che vi contribuiva in modo determinante. Eno così come era giusto se ne andò e Foxx rimasto orfano pubblicò con gli amici rimasti due album incantevoli “Ha! Ha! Ha!” e “Systems of Romance”.

Molti furono in quel periodo i gruppi che nacquero imitando gli Ultravox i quali, non a caso, godevano della stima della stampa inglese arcinota per la sua taccagneria sul piano del consenso.

Ma le sorti del gruppo continuarono ricche di avvenimenti: John Foxx li abbandonò e tutti, allora, pensarono che degli Ultravox nessuno avrebbe più sentito parlare.

Andò invece che le redini del gruppo vennero prese da Midge Ure grazie al quale cambiò anche la musica degli Ultravox. Le relazioni pubbliche aumentarono, Warren Cann, Chriss Corss e Billy Currie uscirono allo scoperto.

Nell’80 viene pubblicato “Vienna”.  I nostalgici della vecchia formazione urlano allo scandalo; coloro che sanno che la vita può imporre profonde trasformazioni si dimostrano ottimisti. “Vienna” è un successo. E’ l’era dei “video” e quelli degli Ultravox sono spettacolari: il filmato che riguarda “Vienna” è solo secondo a quello di Bowie per “Ashes to Ashes”.

Seguiranno poi “Passing Strangers” da “Vienna”, “The Voice” e “Thin Wall” da “Rage in Eden” fino a giungere a “Reap the wind” e “Hymn” dal loro ultimo album “Quartet”.

Visti quest’inverno dal vivo in Francia, gli Ultravox hanno allestito il loro show servendosi di una scenografia suggestiva, la stessa che poi è stata riprodotta sulla copertina del loro ultimo album. Inoltre godevano dell’ausilio di due vocalist che hanno mandato in visibilio la platea. In Italia si esibirono nel dicembre ’81 e forse ritorneranno la prossima estate.

Frattanto è stato pubblicato un singolo di Midge Ure che interpreta una canzone di Tom Rush. Gli Ultravox da parte loro propongono un E.P. con la versione live di “Reap the Wind”.

Marcello Nitti © Geophonìe

23.04.1983. I Thompson Twins, dai cartoon alle isole Bahamas

 

Corriere del Giorno, 23.04.1983

Quel suono sporco, africano.

Debitori verso profonde culture giovanili cone il “reggae” e il “punk”, i “Thompson Twins”, ovvero i gemelli Thompson, stanno conquistando le classifiche di mezzo mondo.

Due notizie: il nome lo hanno tratto da un celebre cartone animato che aveva per protagonisti due balbuzienti investigatori “Thompson and Thompson”; la loro avventura musicale è cominciata nel 1977. Come dicevo le radici dei Thompson Twins sono il reggae e il punk ma il loro sound è una “dance music” raffinata. Amano tinteggiarsi i capelli ornati spesso da lunghe trecce e indossano abiti di grande effetto.

Attualmente sono in tre e vengono guidati da Tom Bailey che è inglese, mentre la giovane Alannah Currie è della Nuova Zelanda e Joe Leeway è nigeriano. Alla formula a tre sono giunti da poco e comunque hanno già all’attivo tre album l’ultimo dei quali è “Quick step and Side Kick”. Originariamente i Thompson nacquero come settetto, diventarono quindi  un quartetto per trasformarsi definitivamente in un terzetto. Una riduzione che però non li ha dennaggiati in qualità.

Con un discreto seguito a livello mondiale, hanno suonato in Europa, Giappone e Australia esibendosi inoltre due volte al “Ritz” di New York. Sono infuenzati moltissimo dal suono africano, acerbo e sporco. Tom Bailey ha dichiarato di provare una intensa eccitazione all’ascolto di quei suoni. I Thompson scrivono testi permeati da storie d’amore, le più frequenti, le più normali: vittime delle illusioni dell’amore, traditi e traditori, affascinanti carogne che ingannano l’amato o l’amata ricevendo in ogni caso fiducia, fedeltà amore e passione.

Sono internazionali. Incidono in costosissimi studi di registrazione a Nassan nelle isole Bahamas e, bisogna dirlo, sono estremamente simpatici.

L’aspirazione dei “Thompson” è di divertirci dopo una parentesi davvero lunga di decadimento della disco-music; aspirano anche a guadagnare molto e abbastanza in fretta.

Capaci di shows unici, tutti giocati su ritmi miscelati con sintetizzatori e percussioni e con parti vocali sempre in bella evidenza, i Thompson ballano e zompano instancabilmente.

Curano con mania perfezionistica il palcoscenico, pullulante di decine e decine di coloratissimi spot che ben si confanno ai colori vivaci trasmessi dai Thompson Twins.

Marcello Nitti © Geophonìe

07.04.1983. E’ uscito il nuovo 33 dei Pig Bag

 

Corriere del Giorno, 07.04.1983

Seconda prova su vinile dei Pig Bag, gruppo nato dalle ceneri del Pop Group. Dopo “Dr.Meeckle and Mr. Jive”, i Pig Bag propongono “Leand an ear”, un disco che viene pubblicato in un momento particolarmente piatto di qualità musicali.

Intendiamoci. La miscela dei Pig Bag è immancabilmente frizzante: ritmi jazz mescolati in soluzioni fiatistiche molto convincenti. Ma tutto questo non basta ad elevare “Lend an ear”.

I Pig Bag rimangono soprattutto una “band live”. Le loro performance sono veri e propri appuntamenti di allegria e di gioa. Gli stessi  musicisti (sette), pieni di verve, comunicano brio e voglia di ballare.

Il gruppo è inglese e incide per la “Y Records”, una piccola etichetta alternativa. Vi anticipo che è in programma una piccola tournèe italiana. Non perdetevi duqneu questo nuovo incontro con i Pig Bag.

Marcello Nitti ©Geophonìe

09.04.1983. Bossanova e amore. A voi gli Antena

 

DISCHINOVITA’ / “Camino del Sol”

Corriere Del Giorno, 09.04.1983

Con l’ondata post-punk, centinaia di ragazzi, affascinati dal mito di un rapido successo, hanno imbracciato una chitarra e hanno subito cercato la strada dell’incisione discografica. A questo punto sono spuntati nuovi stili, nuove miscele musicali e non è stato trascurato alcun filone. Gli “Antena”, per esempio, sono belgi e amanti della bossanova e dei ritmi latini. Hanno proposto una versione della famosissima “The girl from Ipanema” ottenendo consensi in Francia, Svizzera e Belgio.

“Les disques du Crepuscule”, la loro attuale casa discografica, ha dato loro l’opportunità di incidere e pubblicare recentemente un mini-ellepì, decisamente splendido. La musica degli “Antena” è fatta per sognare, piena di tenui calori e ritmiche leggere e dolci. Il loro ultimo lavoro ha per titolo “Camino del sol” e narra di avventure amorose da trascorrere in hotel sulla riva del mare durante estati assolate.

Le due donne del gruppo (gli elementi sono tre in tutto), con le loro voci hanno sicuramente arricchito le composizioni che formano “Camino del sol”. Signori, è musica da ascoltare la prossima estate, quando andrete in calore; ma naturalmente è pure musica da non disprezzare in altre occasioni.

Non credo comunque che vi sarà mai un notevole successo commerciale per gli “Antena”. La loro rimarrà semplicemente musica (soave) per pochi eletti.

Marcello Nitti ©Geophonìe

12.04.1983. Billy McKenzie da solo propone “Ice Cream Factory”

 

Corriere Del Giorno, 12.04.1983

Associates dissociati (per quanto?)

Compagni di etichetta dei Cure, gli “Associates” pubblicarono nel 1980 “The Affectionate Punch”, che nonostante fosse un lavoro molto nuovo, passò inosservato, tanto che il duo Mckenzie-Rankine dovette insistere con coraggio anche perché la casa discografica non gli diede più fiducia.

Ed è così che sfornarono una serie di singoli di notevole bellezza. La raccolta che ne nacque fu un album dal titolo “Fourth deawing down”.

Una musica che ricorda drammi da palcoscenico, con una straordinaria voce di Billy McKenzie, capace di alzarsi e farci scendere a suo piacimento, e l’innesto del fatto elettronico mai fine a se stesso.

Tuttavia la loro affermazione è arrivata con la pubblicazione del singolo “Party Fears Two”, un qualcosa di inaudito, un pezzo di rara bellezza, corale e trascinante. L’album che lo ha seguito subito dopo, “Sulk”, ha confermato lo stato di grazia degli “Associates” i quali caparbiamente si sono riproposti al pubblico inglese che, solo, ha avuto finora il piacere di ascoltarli dal vivo.

Frattanto, sulla scia del loro attuale successo, la “Wea” pubblica il primo album, completamente “rimixato” in modo da rendere attualizzato il suono “Associates”.

Anche per questo motivo la pubblicazione del quarto album del duo ha subìto un rinvio, mentre, sorprendendoci, Billy McKenzie pubblica un nuovo singolo con musica di “Orbidoig” dal titolo “Ice Cream Factory”. Un lavoro impressionante, dove la voce di Billy non si smentisce in creatività e sicurezza.

Rankine invece collabora con un gruppo inglese a livello di produzione, in attesa che giunga il momento adatto per pubblicare il nuovo album come “Associates”.

Marcello Nitti ©Geophonìe

31.03.1983. The Stranglers. Occhiate furtive all’Europa

 

31.03.1983, Corriere del Giorno

Un gruppo al di sopra delle etichette. Amano l’Europa e di tanto in tanto risiedono in città come Parigi, Bruxelles, Zurigo …

Sono gli Stranglers. Hanno all’attivo nove album dei quali uno registrato dal vivo. Nel dicembre ’82 è uscito il loro ultimo lavoro dal titole “Feline”. Occhiate furtive e nitide di questa Europa intramontabile. Un prodotto sincero, immediato. Almeno due canzoni rimarranno dei classici. Stiamo parlando della fantastica e geniale “The European Female” e della corale “Paradise”.

Jean Jacques Bournel e soci ci hanno così regalato un’altra gemma dopo lo splendido “La Folie” e come di solito accade è sempre difficile mantenersi di lavoro in lavoro ad alti livelli. Gli Stranglers ce l’hanno fatta e speriamo di  poterli vedere in una tournee italiana.

Marcello Nitti ©Geophonìe

Polyrock un po’ figli di regina

 

A Triggiano l’atteso concerto del gruppo americano. Venerdì 15 arrivano i “Virgin Prunes”.

Triggiano – Nel palazzetto dello sport di Triggiano venerdì sera sono arrivati venerdì sera molto più numerosi che al precedente concerto degli Echo and The Bunnymen. Diciamoci la verità: i “Polyrock” erano attesi con grande curiosità dai pugliesi.

Dopo l’esibizione dei “Vox Rei”, un gruppetto locale, alle 23 i Polyrock sono saliti sul palco turbati subito da un piccolo incidente occorso a Billy Robertson, il cantante chitarrista, che nell’imbracciare la chitarra si è colpito involontariamente col manico su una sopracciglia ferendosi a sangue. Poca roba comunque. Così gli “americani” hanno aperto lo spettacolo con “Indian Girl” tratto dal loro ultimo album. Ma è stato con il secondo brano che siamo entrati nel mondo del “Polyrock-sound”.

M.Nitti © Geophonìe

Una musica ritmatissima e colorita dai rari appunti dei synths. Billy Robertson è al centro, ed è proprio lui che ha prodotto le migliori canzoni.

Ma la vera sorpresa è stata data tuttavia dal nuovo entrato, che ha preso il posto di Tommy, fratello di Billy, alla chitarra.  Pulito, versatile e qualche volta trascinante, ha tenuto bene la scena producendosi in due “bis” veramente azzeccati.

M.Nitti © Geophonìe

I Polyrock hanno eseguito le loro migliori canzoni, da “Changin Hearts” a “Love Songs” , da “Like Paper on a rack” a “Working on my love”. In conclusione due bis di due brani ciascuno. In definitiva si tratta di un gruppo che strizza l’occhietto a qualche cosa di inglese, ma con una propria indiscutibile identità. Una band che sicuramente riuscirà in breve ad imporre il proprio sound, senza cadere nella trappola del commerciale bolso e scontato.

L’unico neo forse è da cercare nella pochezza dell’impianto luci che avrebbe meritato più considerazione, data la musica particolarmente pulsante dei Polyrock.

Vi ricordo che il prossimo venerdì 15 aprile a Triggiano si esibiranno anche i Virgin Prunes, gruppo irlandese. Ma ne parleremo in futuro.

Marcello Nitti © Geophonìe

MUSICA /«Black Heart», canta Marc Almond (Soft Cell)

 

Mi faccio strada col piccolo E.P.

Gli E.P. (extended play) sono nati per precise esigenze commerciali: anzitutto per una migliore resa della parte incisa, che tranne in alcuni casi è quasi sempre a 45 giri; In secondo luogo per un migliore uso in  discoteca, essendo un 12”; infine per promuovere con più frequenza i gruppi o i cantanti da parte delle case discografiche.

Ultimamente gli E.P. svolgono una incisiva influenza sulle vendite successive degli ellepi. Se l’E.P. è di successo, anche l’album che lo seguirà avrà buoni indici di vendita. E’ il caso per esempio di «New Gold Dream» dei Simple Minds i quali, prima di pubblicare l’album, fecero addirittura uscire ben due E.P., il superfamoso « Glittering Prize» e «Promised you a miracle».

 

Di questi giorni è d’altra parte la pubblicazione per l’etichetta «Some Bizzarre» di un 12’’ di Marc And The Mambas che altri non è che Marc Almond, la metà dei raffinatissimi Soft Cell.

Dopo aver pubblicato nello scorso dicembre un album con incluso il solito 12’’ in omaggio, ora Marc Almond pubblica «Black Heart» (comprendente «You Aura») che piace al primo ascolto. Marc è la voce dei Soft Cell, gruppo ormai famoso anche per il remake di «Tainted Love».

In questa sua nuova avventura, senza separarsi dai Soft Cell, Marc si fa aiutare da Matt Johnson, meglio conosciuto come The The. Il lavoro che ne è scaturito è molto esaltante, due composizioni romantiche cantate magistralmente da Marc e accompagnate da un gruppo di suoi amici per quanto riguarda i fiati e i violini.

Il tutto risulta senza dubbio un piccolo gioiello e le fonti d’Oltremanica ci informano che presto sarà pubblicato un nuovo album ricco di sorprese e che anche Matt Johnson o The The sta preparando il seguito dei suoi due successi, «Uncertain Smile» e «Perfect».

Vedremo chi di questi amici-rivali riuscirà a impressionarci di più.

Marcello Nitti © Geophonìe

Heaven 17 Una  tentazione da ballare in elettronica

 

In attesa che esca alla fine di aprile l’atteso album degli Heaven 17, ecco che viene pubblicato “Temptation”, un EP con tre brani. Dopo il successo dell’81 di “Penthouse and Pavement”, il gruppo si è mantenuto in una fase di edificazione e di mantenimento del proprio successo, pubblicando nell’ottobre ’82 un singolo di qualità, “Let me go”. Grazie a un bellissimo video, il singolo ha trovato posto dappertutto; radio, discoteche, tivù, ed è praticamente da allora che gli Heaven 17 stanno pensando e preparando il prossimo lancio discografico.

L’atteso album del terzetto di Sheffield avrà per titolo “The Luxury gap”. A mio parere gli Heaven 17 sono unici nel proporre musica elettronica da ballare a questi livelli. Non c’è nessun gruppo capace, in maniera originale, come loro.

“Temptation” si discosta da “Let me go”. Vi troviamo “We live so fast”, velocissimo brano di electronic-dance portata a livelli raffinati, con un intreccio di synths sbalorditivo, con una ventata di freschezza immancabile. Inoltre l’omonimo “Temptations” cantato in coppia con Karol Kenyon; e infine “Who’ll stop the train”, già pubblicato sul mercato americano.

In definitiva gli Heaven si confermano sicuri della loro “società commerciale” e cercheranno di portare ovunque il proprio marchio. Attendiamo il calendario dei concerti per gustarci i loro hits.

Marcello Nitti © Geophonìe

31.10.1984. Pete Wylie chi è costui? (leggete e scoprirete)

 

Il suo è  forse il più bell’album dell’84

A molti, il nome non dirà granchè, visto che i suoi lavori non hanno un seguito entusiasasmante e che lui ama firmarsi con il nome di Mighty Wah. Inglese, grande amico-nemico di Ian McCulloch degli Echo and the Bunnymem e di Julian Cope dei Teardrop Explodes, Pete Wylie collaborò proprio con questi musicisti in una Liverpool sempre rivolta ai Beatles intorno al ’77-’78.

Pete Wylie dei tre ha avuto meno successo, ma non per questo è da considerarsi il meno preparato; anzi forse dei tre è quello che più è riuscito a spaziare in diversi generi musicali. Indubbiamente, una varietà di stili ha disorientato la sua audience, ma ha arricchito notevolmente le sue attuali composizioni. Pensate che Pete Wylie non riusciva ad ottenere un contratto discografico perché le sue canzoni erano valutate in maniera disastrosa.

Per fortuna nell’estate dell’84 veniva pubblicato un E.P. che era il preludio alla pubblicazione di un album; il titolo del singolo “Come Back”,  ovvero un gradito ritorno all’eclettico Wah. Subito dopo esce l’album “A word to the wise guy”: un capolavoro. L’album contiene in omaggio un E.P. dal titolo “You Learns” cantata in un “rap elettrico” da Eugene Lange, e un opuscolo con testi delle liriche. I brani contenuti hanno il potere di accennare entusiasmi, di far vorticare sogni-idee-pensieri, di soddisfare passione e di far amare.Ogni perla di questa collana ha il suo colore nutrito da altri colori, forse il più bell’album del 1984.

Provate ad ascoltare “Weekends” o “I know was somethings” e le influenze soul penetreranno nella pelle, o ancora “Come Back” o la grandiosa “Body ‘n’ soul” dove fiati e cori sembrano fiumi di farfalle volteggiare in un’aria di festa, fino a raggiungere il vertice con “The last Generation”, dove il buio ha vergogna di esistere.

In questi giorni appare sul mercato un altro E.P. di Pete Wylie (in arte “Wah!”) e contiene tre differenti versioni di “Weekends”, “The lost generation” e “Body ‘n’ soul”, trattate con semplicità acustica e con un’intimità da rispettare. Il miglior album dell’84, dicevamo, ha come titolo “A word to wise guy” e Pete Wylie ne è l’autore, e lui stesso, forse con una punta di presunzione, che a volte non guasta, ci ricorda che “le cose di qualità non hanno paura del tempo”.

Marcello Nitti © Geophonìe

 

Vecchi cari Soft Cell traditi

 

Rock / Down in the subway / In strict tempo

I Soft Cell si sono divisi, viva i Soft Cell. Questa notizia infuriò l’estate scorsa, e sorprese non poco, Marc Almond annunciò che anche il suo progetto con i Mambas sarebbe finito di conseguenza, e che nuove strade avrebbero percorso, lui e Dave Ball. Un nuovo E.P. dei Soft Cell era annunciato da alcune settimane, e tutto lasciava ben sperare come immancabilmente Almond e Ball ci avevano abituati.

Invece, dopo aver ascoltato «Down in the subway» per la prima volta rimango deluso e scarico le responsabilità sulla casa discografica, rea a mio parere di aver pubblicato questo singolo solo per cercare di ottenere quel guadagno sicuro che un nome come i Soft Cell può garantire. L’E.P. contiene due brani nel lato B e sono “Disease and Desire” e “Born to Lose” di Johnny Thunders degli Heartbrakers. Anche “Down in the subway” è un remake della versione originale di Jack Hammer, ma il tutto non convince anche se le esecuzioni di Ball e la voce di Almond sono impeccabili. Anzi forse verrà edito un album dei Soft Cell con registrazioni effettuate nel periodo di sodalizio della coppia, sperando che non vengano pubblicati materiali di scarto, che la vecchia volpe di Stevo pare abbia gelosamente conservato.

E mentre Marc Almond era impegnato con le sue Mambas la sua metà (Dave Ball) registrava «In strict tempo» e produceva delle canzoni per i Virgin Prunes. «In strict tempo» è stato pubblicato nel novembre dell’83 e oltre alla splendida copertina, troviamo uno stuolo di collaboratori. Tra i rilevanti al flauto c’è Virginia Astley e al sax Gary Barnacle, ma l’apporto più sorprendente è di GenesisP.Orridge, ex Throbbling Gristle e neo Psychic Tv che canta in due brani dove le liriche sono state scritte da lui.

«In strict tempo», più che uno sforzo solistico di Ball, è una riunione di amici che aiutano il più esperto a completare quelle idee che covavano nei cassetti della mente. L’elettronica di Ball è soffice, le sue tastiere sono ad ampio respiro, si muovono a piccoli passi e piano piano ti avvolgono baciandoti e coccolandoti. I fiati e i violini servono a dar sostegno e la voce di Genesis P. Orridge la troviamo in  “Sincerity” e in “Man in the mam”, due brani che hanno il tocco del vento nei capelli. Occhi vogliosi guardano sempre più giù, e così di fila ci riempie con “Mirrors”, “Passion of a primitive” e “Only time”.

In definitiva, un esordio convincente, certamente non privo di quegli errori dovuti ad egocentrismo, che solo due occhi luminosi potranno capire.

Marcello Nitti © Geophonìe

“The Hurting” dei Tears For Fears. Volo di Gabbiano.

Era impensabile che sul mercato italiano potesse essere introdotto un singolo dei Tears For Fears. Ma avvenne. Erano gli albori del 1982, il disco si intitolava “Pale Shelter”. Il brano era prodotto da Mike Hawlett ex  “Gong” (chi ha superato la ventina se li ricorderà) il quale ne fece un successo anche di critica. Poi Hawlett si smarrì seguendo la produzione di altri gruppi, mentre Curt Smith e Roland Orzabal dovettero continuare per altre strade. Frattanto, e forse a loro insaputa, in quel giro che conta a Londra i Tears For Fears stavano diventando una realtà assai solida con due singoli ugualmente validi, “Mad World” e “Change”. Ricchi di arrangiamenti cesellati, di armonie che si intersecano come nei circuiti di un video game, di synths adoperati sempre con creatività, i due pezzi in questione giunsero senza difficoltà in vetta alle classifiche inglesi.

La prova del 33.

A questo punto era necessaria una prova a 33 giri: le “lacrime della paura” si lasciano così aiutare nella produzione di Chris Hughes, già noto per “Adam and The Ants”. L’album, “The Hurting”, conferma in pieno qualità e attitudini dei Tears For Fears, qualità e attitudini peraltro ampiamente palesate nei precedenti singoli. “The Hurting” viene pubblicato dalla Mercury grazie anche al laborioso aiuto di Phil Palmer e di Mel Collins. Palmer ha già collaborato con Joan Armatrading, e Collins – indimenticato membro dei King Crimson  (seconda edizione) – è session man di primo rango in tantissimi gruppi tra i quali è facile ricordare i Rolling Stones.

L’ascolto di “The Hurting” è consigliabile a tutti, il sound non richiede particolari attenzioni e la sua energia sta proprio nel concentrare le variegate emozioni e sensazioni che si trovano racchiuse in queste esili canzoni, permeate tutte di quei suoni cari, adesso più che mai, alla vecchia Inghilterra: naturalmente sto parlando dei synths che qui appaiono come gabbiani in volo.

Per finire posso segnalare il nuovo E.P. dei Tears For Fears: contiene una versione remixata di “Pale Shelter”.

Marcello Nitti © Geophonìe

Ma la testa più grossa è quella di David Byrne

Dopo lo scioglimento dei Soft Cell, dei Bauhaus e dei Rip Rig and Panic, ci giunge ora notizia che Mick Jones, chitarrista dei Clash, è stato allontanato dal gruppo da Paul Simonon e Joe Strummer. I due rimproverano a Jones di aver deformato musicalmente l’idea originale del gruppo. In un comunicato stampa dei Clash (1° settembre) c’è stato l’annuncio ufficiale della defezione – allontanamento di Mick Jones, proprio mentre il gruppo era alla vigilia della pubblicazione di un doppio album live.

Passando a New York, al “Forest Hills Stadium”, i Talking Heads si sono esibiti davanti ad una folla strabocchevole: David Byrne fa il suo ingresso da solo, e con la chitarra e una “rhythm machine” propone una versione inedita di “Psycho Killer”. Con l’ingresso dell’amata bassista Tina Weymouth, del batterista Chris Frantz e finalmente del polistrumentista Jerry Harrison, vengono una dopo l’altra canzoni come “Heaven”, “Thank you for sending me an angel” e “Love goes to building on fire”. L’effetto è come un viaggio nel tempo, una sorta di lezione di storia musicale. Un po’ più tardi fanno il loro ingresso il percussionista Steven Scales, il chitarriasta Alex Weir, il funk-tastierista Bernie Worrell e una coppia di ballerini.

Le composizioni successive travolgono i presenti, “Swamp”, e “Girlfriend is better” tratte da “Speaking in Tongues” in giusta contrapposizione a “Big Blue Ply Mouth”, “When a day that was” e “Big Business” tratti dall’album solo di Byrne “Catherine Wheel”.

I ritmi afro-moderni tanto cari alle famosissime “Teste parlanti” si ritrovano in ogni brano e mai sopprimono le originali radici del gruppo. Poi ancora “I Zimbra” e “This thust be the place” (con David Byrne che diventa un novello Fred Astaire) insieme a “Once in a lifetime”. Come piatto speciale a conclusione di questo isolato concerto nuovayorkese, i “Talking Heads” eseguono “Genius Of Love” dei Tom Tom Club e “Burning Down the house”.

Il concerto ha confermato ancora una volta che la “testa” più alta è quella di David Byrne, il quale ha saputo fondere con precisione da alchimista le influenze americane, europee e africane.

Marcello Nitti © Geophonìe

05.03.1984. Bologna, Depeche in concerto.

L’esibizione italiana in due date.Qualche delusione.

 

A Bologna lunedì scorso, per l’esordio italiano dei Depeche Mode. Dopo la recente trionfale tournèe in Germania, due erano state le date fissate in Italia, in marzo: il 5 a Bologna, il 6 a Milano. Al teatro Tenda di Bologna alle 19 c’è già folla. Dopo vari posti di blocco riesco ad arrivare nel recinto del servizio d’ordine. La tenda, a vista d’occhio, mostra una capienza di seimila posti. Tanti presenti, persona più persona meno, pochi minuti prima che lo spettacolo cominci.

Alle 21.33 le luci si spengono. Un boato accompagna le note introduttive di “Everything counts”. Il concerto ha inizio. Alan Wilder, David Gahan, Andrew Fletcher alle prese con le loro tastiere. Martin Gore è il “front man”: la voce dei Depeche.

Le composizioni si susseguono: “Told you so”, “And then”, “See you”, “Photographic”, “Love in itself”, “More than a party” . Nonostante il continuo incitamento del pubblico, avverto difetti di base. I suoni impeccabili ricordano perfettamente il lavoro di studio, la bravura del singer Martin Gore. Le basi preregistrate anticipano ogni esecuzione.

La mancanza di atmosfera esterna, in ogni brano, sminuisce ogni sogno o ricordo che attribuivo alle loro canzoni. La totale calma e la compostezza degli altri tre, dietro le tastiere, insospettisce: nessuno per tutto il concerto vedrà muovere le dita sui propri strumenti ad Alan, David e Andrew.

Lo spettacolo è scivolato via per un’ora. Il momento più intimo è stato “And then …”, ballata elettronica tratta da “Construction time again” pubblicato lo scorso autunno. Dopo la rituale richiesta di bis, i Depeche Mode escono. La terza uscita uscita dei Depeche riserva un piccolo giallo: durante l’esecuzione di “Just can’t get enough” un’improvvisa interruzione per mancanza di energia elettrica.

Leggera disapprovazione del pubblico e primo annuncio: il concerto non può proseguire perché un cavo generale passante tra il pubblico e collegato al mixer è nettamente tranciato. Il secondo annuncio placa gli animi eccitati: il problema tecnico è risolto. Il concerto, dopo le scuse dei Depeche Mode, riprende con altri due brani. Con il replay di “Just can’t get enough” il quartetto porta a termine il concerto con la quasi totale approvazione di un pubblico divertito e soddisfatto.

Marcello Nitti © Geophonìe

Quando guanto significa “The Glove” (e onore)

Il guanto sostituisce la crema protettiva per le mani.

Un tempo, i tempi del Bois de Boulogne, veniva sfoderato per risolvere vertenze di onore. E’, a conoscenza di popolo, un feticcio primario, come la sciarpa. Nel nostro caso, direttamente dalle stanze più altolocate della «new-wave» inglese, il guanto si accompagna a una precisa realtà musicale.

«The Glove» (ovvero il guanto) è una nuova formazione che, nata più per caso che per necessità, in poco tempo vedrà assumere il primo lavoro «Blue Sunshine» a modello per i prossimi anni a venire. «The Glove» in sostanza significa Robert Smith, il padrone assoluto dei misteriosi «The Cure», diventati ormai un rinomato marchio di fabbrica. Smith impera sui «The Cure»: ecco quello che ha detto a proposito di «Let’s go to bed» il singolo un po’ ottimista musicalmente per mano «The Cure».

«Avevo voglia di scrivere un brano che potesse funzionare in discoteca, non credo di dover rendere conto a qualcuno se ho trascorso un periodo della mia vita in piena felicità; anzi, spero che si ripeta!».

Ad affiancare Robert Smith c’è Steven Severin che è il batterista dei mitici «Siouxsie and the Banshees». I due, incontratisi a Londra in assenza di «Siouxsie e Budgie» (l’altro 50% dei «Siouxsie») impegnati alle Hawaii con le registrazioni del loro primo album color-tribale «The feast» sotto il nome di «The Creatures», hanno dato vita a composizioni di riguardo. “Punish me with kisses» fu scritta al primo parto, con l’aiuto di Landray (dolce voce femminile) e Andy Anderson alla batteria e il progetto cominciava a coinvolgere sempre più i nostri protagonisti. L’album ha bisogno di essere ascoltato più volte e, al di là dalle apparenze, non è frivolo confermandosi viceversa come il miglior lavoro dell’83. I brani sono uniti da una sottile vena di passione, nella quale ognuno può trovare una propria ragione di agio. Complessivamente l’album contiene dieci pezzi, di cui due strumentali, due cantati da Robert Smith e sei cantati da Landray.

Il tutto risulta senza dubbio come frutto di equipe e meraviglia l’ottima intesa che ne traspare. «Like an animal», che apre i solchi, ha fatto anche la sua comparsa come singolo, e tutto ciò che lo segue dà la chiara sensazione di trovarsi di fronte a piccoli capolavori. “Looking glass girl», primo tra tutti, è struggente e bellissima; «Perfect Murder», cantata da Robert Smith, insegue sinuosamente stelle e arcobaleni: «This green city», «Mr. Alphabet Says» e «Orgy», in un vortice di piacere, fanno desiderare amori forti e luminosi. Con «Relax» si chiude l’album e, naturalmente, siamo convinti che è nata un’altra stella, dopo quelle scintillanti dei «Wire» e dei «Joy Division».

Marcello Nitti © Geophonìe

I Culture Club, figli di Strange

Londra, notte.

Fra le nebbie di Londra negli ultimi due anni sono spuntati innumerevoli locali abbastanza particolari, fra i qualil il “Blitz” e il Futura”. Club esclusivi dove sono nate culture del vestire che poi a loro volta hanno rappresentato le identità di altrettanti gruppi.

Steve Strange nel suo locale il martedì  programmava unicamente musica di David Bowie, tanto che la serata veniva soprannominata “Bowie Night”:  lo stesso Steve Strange che  insieme agli Ultravox (Midge Ure), ai Magazine (Adamson) e ai Banshees (John Mc Gough) creò i “Visage”.

Erano serate stravaganti cui prendevano parte molti nomi della “new wave” più seguita. E naturalmente la voglia del successo, che sopraggiungeva a cucchiaiate, determinò un ulteriore incremento dei gruppi nascenti, uno dei quali, al primo lancio discografico ha già fatto centro: sono primi in Inghilterra, sesti nelle classifiche Usa. Il loro singolo di successo è “Do you really want to hurt me”, loro si chiamano  “Culture Club”. Boy George sembra esserne il leader, se non altro per il motivo che sessualmente è equivoco e inoltre perché la sua immagine ci ha già affascinati.

Il “video” del singolo ha ottenuto grandi consensi e il lento andare del filmato ben si addice all’avanzare languido e reggheggiante del brano in questione.

L’album si chiama “Kissing To be clever” e tutti i pezzi sono permeati di un funky bianco ben strutturato e assai orecchiabile.

Tra i musicisti del gruppo c’è Jon Moss che – non dimenticatelo – era il primo batterista dei “Clash”.

Organizzatori italiani contano di trascinare in Italia i “Culture Club” per i prossimi mesi di giugno-luglio. Speriamo di poterci godere dal vivo una di quelle serate londinesi.

Marcello Nitti © Geophonìe

 

02.12.1982. Ricordati Barbara quella notte di stelle a Ginevra

Dischi. Vi segnalo i “Passions”, con una Gogan dalla voce elegantissima.

Vi propongo i “Passions”. E ve li propongo raccontandovi un mio ricordo personale. E’ il 2 dicembre 1982. I “Passions” sono attesi a Ginevra, in Svizzera. Acquisto il biglietto in prevendita e cerco di immaginare se dal vivo il gruppo riuscirà a confermare quel talento che dimostra negli album. Arrivo in netto anticipo sull’orario del concerto e, dopo aver bevuto qualcosa, mi sistemo proprio sotto il palco, insieme con un amico. Alle 21, puntuale come un orologio svizzero, il gruppo fa il suo ingresso, e immediatamente le note di “The Swimmer” inondano il grande salone del 1700 dove si svolge lo spettacolo.  Il pubblico, poco numeroso, si dimostra subito svogliato, applaude timidamente alla conclusione di ogni brano. Ma, ad ogni modo, lo spettacolo cresce in qualità canzone dopo canzone. Tanto che, dopo la prima mezzora, stiamo delirando per “I’m in love with german film star”, una versione impossibile, con una nuova al sax e alle tastiere, che accompagna i Passions in tour.

Barbara Gogan, Ginevra, 2.12.1982. (Marcello Nitti © Geophonìe)

Barbara Gogan, con la sua voce elegantissima, sciorina via via tutti i migliori brani: la favolosa “Into Night”, la toccante “Sanctuary”, la veloce “Jump for Joy”. Il pubblico è appagato, tutti si mettono in movimento, i bis sono addirittura quattro. Entusiasmante. Barbara ringrazia in francese e la sua esile figura scompare dietro le quinte, dove la raggiungo per poterle parlare.

La chiacchierata ha luogo in uno chalet-ristorante, con Barbara che tra un boccone e un bicchiere di vino mi racconta quanto le piacerebbe poter suonare in Italia. Per il resto, abbiamo parlato come due vecchi amici. Alle tre del mattino ci salutiamo. Barbara mi garantisce che presto verrà in Italia. Andiamo a casa sotto un cielo stellato, con le luci notturne di Ginevra e la musica dei Passions come colonna sonora.

Marcello Nitti © Geophonìe

11.09.1983. Peter Hammill. Quanta gioia in quella rabbia.

Ricorderete senz’altro i famosi «Van der Graaf Generator», guidati da Peter Hammill, che nei primi anni ’70 ebbero un largo successo in Italia insieme ai Genesis e ai Gentle Griant. Ebbene, dopo il concerto d’addio del gennaio ‘78, come componente dei «Van der Graaf Generator», Peter Hammill ha continuato la sua attività solistica di cantore sempre alla ricerca di soluzioni della sua sete di sapere e dei perchè della vita. Peter Hammill ha da poco pubblicato il suo dodicesimo album da solista dal titolo «Patience», che è molto bello e soprattutto molto «vero». In questo mese di settembre Hammill sta nuovamente affrontando i palcoscenici italiani (Lugo, Modena, Peschiera del Garda, Mestre). Noi l’abbiamo ascoltato e intervistato a Lugo di Romagna (Ravenna) il 7 settembre scorso, in occasione del suo spettacolo.

Peter fa il suo ingresso con il fido amico Guy Evans (batteria – ex Van der Graaf) e con John Ellis (chitarra) che ha suonato anche con Peter Gabriel nel tour italiano dell’80. Peter, sorriso simpatico, si siede al piano elettrico, e comincia subito a creare quelle atmosfere a lui tanto care e a noi tanto note. Le sue composizioni sono intrise di rabbia, solitudine, gioia e tristezza. E’ un piacere essere qui ad ascoltare questo trentasettenne che sembra un ragazzino. La sua voce, da sola un universo musicale articolato e composito in cui è possibile trovare traccia dell’ispirazione di tutti i suoi lavori, è perfetta, capace d’essere modulata in ogni modo. La sua voce è vera, è il suo primo strumento, ti colpisce, è una delle più belle voci del rock in senso assoluto. Hammill esegue brani del periodo «Van der Graaf», «The Sphinx in the face» tra le altre, e ancora «In my room», «The Jarkon King», «Last frame», «The future now», e altre ancora ripescate da tutti i suoi precedenti album.

Il concerto si conclude con un bis molto sofferto e Peter Hammill, applauditissimo dai presenti, salutando in italiano, si allontana. Lo incontriamo subito dopo il concerto, ci invita a parlare  in italiano, parla la nostra lingua e la capisce molto bene. Peter, occhi blu-verdi, magro, sorriso sulle labbra incomincia dicendomi che «è sempre contento di suonare in Italia». Ed è così, tournèe dopo tournèe, che ha imparato la nostra lingua.

Nell’album Pawn Heart dei V. D. G. G. — gli chiediamo — di molti anni fa dicevi «Who am I ?» (Chi sono io?). Hai mai trovato una risposta? «Non c’è risposta a questa domanda. Se sei triste o felice non lo saprai mai».

Sei felice del tuo lavoro? «Abbastanza. Ho sempre lavorato. Mì piace molto lavorare e fin quando avrò forza farò sempre questo. Ma nella mia vita non c’è solo la musica, c’è anche la mia famiglia».

Hai amici nel mondo della musica? «No — risponde secco — Ognuno pensa sempre e soltanto a raggiungere il successo e a far emergere il proprio Io. E’ proprio un mondo impossibile».

Di che cosa parla il tuo album “Over” del 1977 ? «E’ per me un lavoro molto caro – risponde con un tono un po’ imbarazzato Peter – perché racconto la storia di un vero amore che sta finendo. Io parlo sempre di cose vere”

 Marcello Nitti © Geophonìe

Ricordati Barbara quella notte di stelle a Ginevra

Vi propongo i “Passions”. E ve li propongo raccontandovi un mio ricordo personale. E’ il 2 dicembre 1982. I “Passions” sono attesi a Ginevra, in Svizzera. Acquisto il biglietto in prevendita e cerco di immaginare se dal vivo il gruppo riuscirà a confermare quel talento che dimostra negli album. Arrivo in netto anticipo sull’orario del concerto e dopo aver bevuto qualcosa mi sistemo proprio sotto il palco, insieme con un amico. Alle 21, puntuali come un orologio svizzero, il gruppo fa il suo ingresso e immediatamente le note di “The Swimmer” inondano il grande salone del 1700 dove si svolge lo spettacolo. Il pubblico, poco numeroso, si dimostra subito svogliato, applaude timidamente alla conclusione di ogni brano. Ma, a ogni modo, lo spettacolo cresce in qualità, canzone dopo canzone. Tanto che, dopo la prima mezz’ora, stiamo delirando per “I’m in love with german star”, una versione impossibile, con una nuova ragazza al sax e alle tastiere, che accompagna i “Passions” in tour.

Barbara Gogan, con la sua voce elegantissima, sciorina via via tutti i migliori brani: la favolosa “Into night”, la toccante “Sanctuary”, la veloce “Jump for Joy”.  Il pubblico è appagato, tutti si mettono in movimento, i bis sono addirittura quattro. Entusiasmante. Barbara ringrazia in francese e la sua esile figura scompare dietro le quinte, dove la raggiungo per poterle parlare.

La chiacchierata ha luogo in uno chalet-ristorante, con Barbara che, tra un boccone e un bicchiere di vino, mi racconta quanto le piacerebbe poter suonare in un concerto in Italia. Per il resto, abbiamo parlato come due vecchi amici. Alle tre del mattino ci salutiamo: Barbara mi garantisce che presto verrà in Italia. Andiamo a casa sotto un cielo stellato, con le luci notturne di Ginevra e la musica dei “Passions” come colonna sonora.

Marcello Nitti © Geophonìe

Conversazioni su Adrian Borland & The Sound.

Gli autori Basile e Nitti, al Caffè Nautilus di Taranto (23 dicembre 2016) hanno presentato al  pubblico il loro nuovo libro, spiegando il valore dei testi di Adrian Borland e raccontandone la  storia artistica e personale.

05 “Sin dalle sue origini, la musica popolare si è sviluppata con un’accentuata vocazione  all’intrattenimento. Non era richiesto che i suoi contenuti venissero espressi attraverso testi  “letterari”. Il verso poetico, se capitava, era eccezione alla regola. La canzone popolare era “musica leggera” proprio per questa sua attitudine a contrapporsi alla musica alta, colta, alla grande opera lirica o sinfonica. La sua facilità di fruizione, di percezione, l’immediatezza che la caratterizzava, discendeva anche dalla facilità dei suoi testi. E’ per questo che nella pop music hanno poi trovato diritto di cittadinanza tanti testi insulsi, stupidi, privi di contenuto. Il testo veniva spesso concepito unicamente come accessorio, utile solo a far funzionare la canzone.  Testi senza senso, casuali, banali. Ne abbiamo letti di tutti i tipi. Anche la filastrocca poteva essere presa a prestito, e perfino assurgere a standard stilistico. “Tu dici si/Io dico no/Tu dici stop/Io dico vai vai vai/Tu dici goodbye/Io dico ciao” (The Beatles, Hello Goodbye, 1967), è uno standard, come “She-Loves-You-Yeah-Yeah-Yeah”: la canzonetta può fare a meno del pensiero intellettuale, e funziona ugualmente. Questa scoperta è alla base dello sviluppo inarrestabile della musica pop.

DSC_0004Solo con l’avvento dei cantautori il sistema-canzone riscopre il valore del testo: la musica popolare trova un nuovo percorso, un’altra modalità di sviluppo. Il cantautore cerca il contenuto prima delle armonie melodiche, cerca la poesia, a cui ambisce, a cui vuole accostarsi sempre più. E attraverso questo binario, più complesso e profondo, la musica popolare in questi anni  è riuscita a guadagnare il rispetto delle arti maggiori e della cultura sino a ottenere il più alto riconoscimento, quello del Nobel per la letteratura assegnato a un cantante rock, Bob Dylan: non per la musica, ma per i suoi testi, finalmente accolti come autentica letteratura.

Negli anni 80 una musica molto estetica,  fortemente orientata verso il mercato, il look, la moda e il largo consumo, aveva nuovamente relegato i testi ad un ruolo 02secondario. Nessun gruppo, tra quelli che oggi definiamo “new wave”, passa alla storia per liriche di particolare valore letterario. I Simple Minds, gli Ultravox, i Bauhaus, i Depeche Mode e tutte le schiere di band commerciali sulla scia dei Duran Duran, George Michael, Madonna, Culture Club, non hanno lasciato alcun segno attraverso i propri testi. Per questo i testi di Adrian Borland e dei The Sound sono stati oggi riconosciuti come testi diversi: Borland aveva un approccio cantautorale nella composizione del testo, fatto atipico in quella scena musicale.   Non venne notato. La sua scrittura, “punk riflessiva”,  è risultata un caso forse unico nel panorama di quegli anni. Lo abbiamo compreso col tempo, crescendo, con la passione di chi ama la musica e non si accontenta delle sole suggestioni sonore, quelle che prima o poi passano di moda e non ci appassionano più” .

’80, New Sound, New Wave – la Recensione di Sentireascoltare.com

La recensione al libro ” ’80, New Sound, New Wave” pubblicata sul sito sentireascoltare.com

di Stefano Pifferi
1° marzo 2009.

“Di sguardi sulla wave, anche obliqui o trasversali o paralleli e particolari, ne sono circolati molti negli ultimi anni. Anche in Italia. Soprattutto durante il revival cui siamo stati sottoposti in questi anni 00 a base di emul-rock commerciale e becero, rivisitazioni genuine e spontanee o celebrazioni à la page e nazional-popolari. Mai però ci si era trovati di fronte ad una indagine – un libro nello specifico – che trattasse quel periodo d’oro limitandone il raggio d’azione alla provincia meno cool (oggi come ieri) della periferia dell’impero di certo rock.

Cosa buona e giusta, a dir la verità. In primo luogo perché dimostra passione, tanta, forse troppa visto poi il disgregarsi di certe forze, sia all’epoca delle vicende narrate – immaginate cosa significasse quasi trenta anni fa sbattersi per organizzare concerti nel sud d’Italia – sia nell’attualità della nascita di questo ’80 New Sound, New Wave, lavoro certosino e immaginiamo difficilissimo di reperimento delle fonti da parte di Giuseppe Basile (prevalentemente testo) e Marcello Nitti (prevalentemente immagini e foto). Due protagonisti diretti di quella epopea, sconosciuta ai più in verità, che vide i più grossi nomi della wave d’oltremanica calcare i palchi improvvisati di Taranto, estremo sud dello stivale, all’epoca dei fatti ancora al limitare dell’illusoria tendenza espansionistica che certe industria pesante (ma non pensante) prometteva senza poi mantenere.

Taranto, luogo ameno, non proprio votato alla musica, specie a quella d’avanguardia come sottolinea Basile nella prefazione, si risveglia però proprio sull’onda di quella nuova onda; la sua gioventù assetata di novità, di input, di ancore di salvataggio sembra rinascere proprio attraverso quelle musiche allora di confine dimostrando una vitalità, una sorta di coscienza identitaria connessa a “una musica di nicchia che usciva dalla nicchia”, a tutt’oggi invidiabile.

Proprio nel taglio insieme documentaristico e sociologicamente altro del libro risiede lo scarto maggiore e il pregio principale di questo ’80 New Sound, New Wave. Se da un punto di vista prettamente sociologico i due autori, procedendo per immagini e parole, sembrano sottolineare in senso positivo, quasi rivendicandola, proprio la matrice “provinciale” del lavoro, attenta cioè ad indagare lo stretto legame tra provincia e mondo musicale in espansione; da quello più squisitamente documentaristico forniscono non la solita, trita e ritrita riflessione sulla wave (electro, dark, gothic, post-punk che sia). Bensì, una indagine “quotidiana” della passione musicale che bruciava in quei primi anni ’80.

Ricordi, memorie, chiacchiere in libertà con i protagonisti di quel periodo. Legami intensi, fili interrotti o ripresi, revival nel senso etimologico del termine che ha il pregio di farci (ri)vivere aneddoti e momenti sinceramente interessanti (comici e/o seri) su artisti del calibro di Simple Minds e Bauhaus, Siouxie e New Order tra i tanti. Oltre che mostrarceli, miti de-mitizzati, giovani tra i giovani, nella quotidiana vita della rockstar in provincia. Due su tutte: i Cult a cena nel ristorante del Tursport, il centro sportivo teatro della maggior parte degli eventi narrati, come una qualsiasi comitiva di ventenni; o i Bauhaus goffamente intenti a giocare a calcio, gotici e emaciati come d’ordinanza, nel campetto del suddetto centro sportivo.

Un libro da leggere e guardare, insomma, ma anche, perché no?, per riflettere sull’importanza della wave primigenia”.

Articolo su sentireascoltare.com
https://sentireascoltare.com/recensioni/giuseppe-basile-marcello-nitti-80-new-sound-new-wave/ 

80 NEW SOUND, NEW WAVE. La recensione di Ondarock

La recensione di Ondarock.
2008
di Mimma Schirosi

Titolo: 80, New Sound, New Wave – Vita, musica ed eventi nella provincia italiana degli anni 80
Autori: Giuseppe Basile, Marcello Nitti
Edizioni: Geophonie, 2007

Parlare di Taranto, negli anni 2000, pare azione quanto mai impavida e, nella maggior parte dei casi, carica di sdegno, per le tristi vicende politiche che, negli ultimi due anni, hanno restituito l’immagine di una città segnata dal “tutto da perdere”, anche per chi ancora nutrisse qualche speranza di riscatto da un eco-mostro siderurgico e da amministrazioni in assoluta discesa etica e culturale.
Le risposte, oggi, potrebbero essere riassunte in una sola, mortificante parola: fuga. Esaurita ogni energia positiva, la popolazione più giovane rinuncia alla riedificazione di un fantomatico “nuovo”, per proiettare le proprie ambizioni in territori nazionali e internazionali dotati degli elementi basilari per una più semplice forma di sopravvivenza.
Le città portuali, sin dai tempi più remoti, portano con sé l’afflizione di un costante contrasto tra bellezza spudorata, legata alla peculiarità del mare, e degrado sociale. Quasi per una sorta di incantesimo, le identità divengono drammatiche, esasperate, a volte grottesche, i movimenti arroccati su di un’orgogliosa identità di “classe”, i fenomeni di costume rigettati a priori, oppure anticipati, anche rispetto ai grandi centri di là a nord. Tutto ciò che accade, si dispiega, in questo tipo di centri, in maniera spesso del tutto singolare, nel bene e nel male.

Giuseppe Basile e Marcello Nitti, affondando le mani nelle acque torbide, oltraggiosamente e più volte rimescolate da personaggi di dubbia umanità (ché, a volte, i cattivi paiono i “deformi” di una civiltà aliena), operano paziente e meticolosa azione di pulizia, per restituirci una galleria che, procedendo attraverso il flashback visivo e verbale, a noi trentenni divoratori e ricercatori di suoni, pare un “ritorno al futuro” che agogniamo sin dall’adolescenza, tanto per la nostalgia di un’infanzia incuriosita dalle note gommose di una “Don’t You Want Me?” e dal brividino sulla schiena di fronte ai frames di un Robert Smith chiuso nell’armadio di “Close To Me”, quanto per la desolazione di un presente “musicale”, un movimento di intelletti, volontà, abnegazioni assolutamente da costruire in prima persona.

“80, New Sound, New Wave”, è una micro-storia di vittoria sui tempi, uno strabiliante documento di intuizione di quella che, per i più, sarebbe diventata una moda, vissuta nelle sue forme più vistosamente esteriori, un sentire comune rispetto a quella fascinosa weltanschauung che sottendeva a un’espressione musicale in rotta con le singole sfaccettature delle epoche precedenti.
Partendo dalla scena locale, l’elogio del telefonino veniva sostituito dalla sperimentazione con il synth, mutuando dagli anni 70 l’afflato più minimale, futuristico e glaciale.
Questa piccola comunità di ambiziosi mutanti inizia a muoversi intorno alla figura di due band dalle discrete fortune, i Central Unit e i Panama Studios. Tute metalizzate, trucchi iridescenti, pose provocatorie nella forma, David Bowie, Kraftwerk, Talking Heads, Devo, Pere Ubu, nella sostanza. E come da una fertile progenie, iniziano a fiorire altre realtà che vanno specificandosi in morfologie legate, invece, al movimento dark tout court (Bauhaus, Siouxsie and the Banshees, Cure), come i Lilith e i Vena.

Il centro del tutto è una piazza, un negozio di dischi e uno di abbigliamento. Le conversazioni, gli scambi di materiale, la condivisione avvengono vis à vis o, al massimo, attraverso quella accettabilissima comunicazione via etere costituita dalle radio libere, con alcuni, illuminati speaker che si fanno portavoce di queste nuove espressioni musicali.
Il bisogno di vivere da vicino l'”evento”, non solo per evitare la noia di centinaia di chilometri da macinare in auto, ma quale forma di naturale espressione di un circuito sociale e culturale che si era guadagnato ogni rispetto nelle piazze più “alternative” del paese, fa sì che si superi la fase di temerarietà propria dei principianti, per osare ciò che oggi pare impossibile: Bauhaus, New Order, Simple Minds, Ultravox, Cult, The Sound, Siouxsie and The Banshees e Style Council, in una manciata di anni dal 1982 al 1987.

Oggi, usufruendo di quel che resta di un territorio inginocchiato, mentre passeggiamo sulla battigia, riesce a materializzarsi la figura di Bernand Sumner che, dopo il glorioso concerto in città, resta folgorato dalla limpidezza dell’acqua jonica sino a scriverne in “The Beach”. Oppure, recandoci in auto alle ormai elitarissime dance hall indie-rock, ridiamo in faccia alle sbarbine vestite di bianco, in fila davanti alla discoteca Canneto, ripassando con la memoria visiva le foto di Siouxsie di rosso vestita che, nello stesso posto, più di vent’anni fa, riuscì a mettere all’angolo una clientela ordinaria e snob. E caricando nelle nostre playlist i Sound, quasi ci imbarazza appartenere a una generazione che scavalca la consolle per domandarci “che fighi… chi sono questi?”.

Il senso del nostro ritorno al futuro, del nostro viaggio a ritroso in un passato di cui custodiamo una memoria bambina, della speranza che giunga una nuova onda capace di battere sui tempi il resto del paese, dandoci la forza di restare, è tutta lì: nelle foto di Peter Murphy che gioca a tennis sui campi del “tempio” Tursport, crocevia e cuore di queste vicende, nell’immagine di Siouxsie che boccheggia come un pesce provocando gli astanti del Canneto, nello sguardo carico di ogni emozione di Adrian Borland, nella libertà degli uomini di usare l’eye liner per andare a ballare alla discoteca rock “Penthouse”, apripista del felice susseguirsi di eventi in quel quinquennio.

Operazione nostalgia? Potrebbe darsi. Ma la nostalgia ha il gran pregio di recare con sé la memoria, di ricordarci quanto la storia non segua un percorso necessariamente lineare, né sempre accidentato, e quanto, a volte, possano nascondersi delle piccole gallerie di intoccabile valore anche nelle pieghe di minuscoli centri urbani, sventrati selvaggiamente dalla miseria culturale degli “alieni deformi”, ma scelti dal Caso per la caduta prima di strabilianti meteoriti.

“Torneranno i tempi (?)” (cit. riveduta e corretta).

https://www.ondarock.it/speciali/newsound.htm
Mimma Schirosi © Ondarock

’80, New Sound, New Wave – Recensione sulla Gazzetta del Mezzogiorno

Gazzetta del Mezzogiorno
9 settembre 2007

Amarcord anni ’80
La musica “New Wave” e la nostra provincia in un testo di Basile e Nitti.
di Fulvio Colucci

Chi ricorda la New Wave? L’ondata di musica che, partita dalla Gran Bretagna, invase l’Europa agli inizi degli anni ’80? Fu l’ultimo fenomeno di massa generato dalla rivoluzione giovanile; per intenderci: l’ultimo figlio del ’68 e della beat generation, anche se, paradossalmente, finiva per sovvertire quei simboli ( e quei suoni).

L’ultimo lembo dell’impero, la nostra pigra e sonnacchiosa provincia, fu investita dalla British invasion, l’orgia di suoni (dall’elettropop al dark), stili e tendenze (dagli abiti alle acconciature) inglesi. I tarantini Giuseppe Basile e Marcello Nitti provano a far sfilare gli anni, i piccoli e grandi personaggi, i ricordi sulla passerella di questo pezzo di storia del costume (che è anche un pezzo di storia patria). Il libro si intitola: “80, New Sound, New Wave” (Edizioni Geophonìe – 22 Euro). Il collage di ricordi e suggestive immagini sarà presentato questo pomeriggio al circolo sportivo Tursport di San Vito (ore 18,30). Si tratterà, per certi versi, di una rimpatriata più che di una presentazione, perchè il Tursport fu palcoscenico di concerti musicali irripetibili per la nostra città. Dai Bauhaus ai New Order; dagli Ultravox ai Simple Minds. Gruppi che hanno fatto la storia della musica internazionale e che, in quegli anni, facevano tappa a Taranto riconoscendo alla nostra città, nei fatti, lo status di importante centro della cultura giovanile europea. Un miracolo che (oggi) ha dell’incredibile.

Basile e Nitti sono mossi dal desiderio di raccontare, “forse i più giovani non lo hanno mai saputo, e qualcuno tra i meno giovani lo aveva dimenticato”. Spinta lodevole, che però mette a nudo come quella generazione – alla quale è appartenuto anche chi scrive – non seppe trattenere fra le mani ciò che faticosamente era riuscita a conquistare. Così fummo sconfitti dalla Storia proprio quando, altro estremo paradosso, a quell’onda nuova cui eravamo devoti riuscì l’ultimo colpo: contribuire al crollo del Muro di Berlino del 1989. L’onda si arrestò subito dopo, impedendoci di “cambiare” la città. E “cambiare” la città, allora, significava, torna il paradosso, farla rimanere uguale a se stessa: miracoloso crogiuolo di fermenti senza università, senza palasport, ma con tante speranza. E tante anime. Finite puntualmente fuori sede.

 

80 New Sound New Wave – La recensione del Corriere del Mezzogiorno

Viaggio nei miti degli anni 80 
con il libro “New Sound New Wave scritto dai tarantini Basile e Nitti”
Corriere del Mezzogiorno
05.01.2008

di Michele Casella

Apparentemente lontani, pieni di illusioni e a tratti al limite del kitsch, gli anni ’80 rappresentano il primo riferimento musicale per l’attuale scena discografica internazionale.

Parlarne significa coinvolgere un periodo storico ed artistico determinante nell’evoluzione dei gusti e dell’immaginario contemporaneo, un dato di fatto lontano da qualunque desiderio di revival o concessione nostalgica.

Quel periodo, radicalmente diverso nelle dinamiche economiche dello show business e ben più equilibrato nei rapporti fra produzione e fruizione, costituisce ormai l’ultimo esempio di compromesso fra urgenza espressiva e modello economico.

Oggi come allora, però, sembra essere la provincia a rappresentare il germoglio per nuovi ascolti e medesime passioni, come ci testimonia il volume ’80 New Sound, New Wave. Vita, musica ed eventi nella provincia italiana degli anni ’80  (Geophonìe, pp.222, euro 22) curato dai tarantini Giuseppe Basile e Marcello Nitti. Un libro realizzato con lo spirito delle fanzine d’epoca ma al tempo stesso con grande esperienza e professionalità, doti acquisite durante gli anni d’ora di quel periodo. Guidati dai ricordi ma soprattutto da una passione smodata per le band provenienti da Gran Bretagna e Stati Uniti, Basile e Nitti hanno preparato un libro a metà strada fra il testo divulgativo e il diario di vita, incentrato tanto sugli artisti quanto sui luoghi di riferimento.

Un’operazione coraggiosa, tanto più pensando che si tratta di un’autoproduzione realizzata in grande formato e con pregevole veste grafica, una vera avventura editoriale mossa da competenza e un pizzico di follia.

A tracciare le linee guida del volume troviamo una ricchissima carrellata di materiali – quasi completamente privati e rigorosamente eighties – fra cui pass di concerti, volantini in bianco e nero, ritagli di giornali e splendide fotografie. Un piccolo tesoro spesso riconducibile alle attività musicali di Taranto e in particolare del Tursport, location d’eccellenza per la new wave pugliese e palcoscenico di storici concerti che hanno caratterizzato un’epoca. Bauhaus, New Order, Siouxsie & The Banshees, The Cult, e Tuxedomoon sono alcuni dei gruppi che vivacizzarono quegli anni; nomi a cui Basile e Nitti dedicano interi capitoli, utili a chi c’era per ricordare ma anche ai neofiti per scoprire una storia importante.

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