ROCKSPEL: PROVE DI “GOSPEL IN ROCK”

www.rockspel.com

La band modenese, è alla vigilia della pubblicazione della propria prima fatica discografica, con cui finalmente dà alle stampe il frutto di due anni di sperimentazioni vissute on the road in Emilia e dintorni.

Riuscire a trasmettere un messaggio culturale in musica è impresa ardua. Specie oggi, tempi in cui il messaggio non è quasi richiesto, e la schiera dei musicisti che non ci provano nemmeno più cresce a dismisura.

Molti ormai suonano e basta, comunicano solo attraverso le note e le sonorità, e forse anche per questo difficilmente poi riescono ad elevarsi e differenziarsi dal magma, dall’orgia di suoni che ci avvolge rumorosamente.

Di musica in giro ce n’è sempre, e in abbondanza, più che in ogni altra epoca, e certo più del necessario. Ma di carisma, di magnetismo, sempre meno. Misteri della comunicazione.

Sfortunati i musicisti contemporanei, verrebbe da dire.

Negli anni ‘60 e ‘70 la ricerca del messaggio era così spasmodica che l’indagine sui significati finiva col travisare completamente il loro lavoro: se i contenuti e gli ideali erano carenti, o del tutto assenti, le intenzioni più improbabili le si andavano a ricercare anche laddove un artista non aveva neppure pensato di collocarle, nell’immagine di copertina di un disco, nel titolo “forse-volutamente-criptico”, nei versi, che venivano riletti e reinterpretati tra mille supposizioni, suggestioni e dietrologie.

La voglia di contenuti era famelica. Erano anni in cui la musica, oltre che forma di espressione artistica e prodotto commerciale, per molti era assurta a filosofia: se ne indagavano i significati più reconditi analizzando minuziosamente ogni traccia, cercando di carpire messaggi nascosti, stati d’animo degli artisti, ragioni e pensieri inespressi.

Il musicista, insomma, era una sorta di oracolo, e quel bisogno collettivo d’immedesimazione era tale da elevare la sua arte musicale sino a sovraesporla.

Oggi invece accade che se un musicista, oltre a suonare, si azzarda anche ad esprimere una qualche sua specifica idea, sulla vita e sul mondo, viene immediatamente percepito come invadente e importuno.

Perché dovremmo stare qui a sentirci una predica? Perché un musicista ritiene che a me, utente occasionale, possa importare qualcosa del suo punto di vista?

Ciò che in passato ci appariva un passaggio obbligato per gli artisti (costretti a dire qualcosa anche quando non avevano nulla da dire), oggi ci appare un gesto retrò, ridondante, non necessario, un’espressione di supponenza.

Non rendiamo allora un favore ai ROCKSPEL e al loro progetto se mettiamo sull’avviso il pubblico spiegando che la proposta artistica di questa band modenese è nata, e si è incentrata, partendo anzitutto dai contenuti. Se li presentiamo così, chi decidesse di andare ad assistere a un loro show potrebbe pensare di andare a sorbirsi una predica.

In realtà, si tratta essenzialmente di rock-blues, e di predica ce n’è ben poca. Anzi, troppo poca, perché per un progetto come quello che loro perseguono, qualche parola in più proferita dal palco ci starebbe.

E’ una strana alchimia, quella dei Rockspel, perché nasce da una storia originale che non siamo abituati a sentirci raccontare.

Una chiesa protestante carismatica di Modena, “Gesù fonte di acqua viva”, che fa capo al Kingdom Faith ad Horsham nel Sussex utilizza la musica come strumento cardine dei propri culti. Una funzione religiosa può ben arrivare a ricomprendere più ore di canto e di musica. “La nostra chiesa ha un palco predisposto per musicisti e cantanti”, dice Grazia Mimmo, lead singer dei Rockspel, “perché la musica nel nostro culto ha un ruolo assolutamente centrale. Si comincia con essa per lodare Dio e si continua utilizzandola come strumento di adorazione, sino a una comunione profonda con Lui. Al di fuori del culto la musica si utilizza anche come veicolo di evangelizzazione”

Sembra un’ambientazione da film americani, superficialmente ti verrebbe da pensare alle caricaturali performance dei Blues Brothers, e a tutti quegli Halleluja che i grandi rockers degli anni 50 e 60 proferivano dal palco al termine di ogni indiavolata canzone, tra ancheggiamenti, piroette, balli scatenati e cori. Ma quelle sono note di colore tipicamente cinematografiche, la realtà non è certo così. Vero è che nelle chiese protestanti le proposte musicali sono più “disinibite” e libere da cliché, con modalità magari più varie rispetto alla cantata piatta e da sottofondo delle chiese cattoliche, talvolta con maggiore ricerca sonora e vocale e diverse influenze. “Nei nostri concerti facevamo gospel classici”, continua Grazia, “e quindi, anche se questo ci consentiva di esibirci in giro, d’altra parte però ci limitava alla sola frequentazione di certi circuiti, teatri, piazze, in periodi dell’anno particolari come a Natale, e sempre nell’ambito di manifestazioni specifiche”. La musica che si produce nelle chiese protestanti, infatti, è per sua natura più esportabile, più votata all’esterno, di solito è anche più godibile dagli utenti: ma se resta solo nell’ambito del gospel classico rischia di svilupparsi secondo schemi abbastanza fissi e ripetitivi.

Avevamo voglia di proporre e suonare musica cristiana”, spiega allora Valerio Corvino, batterista e coniuge, “ma per entrare in un circuito diverso, quello dei pub e dei club, per introdurre il nostro background gospel dovevamo rielaborarlo in un linguaggio musicale adatto a questo tipo di posti e di pubblico. Abbiamo sempre cercato uno spazio rock blues per la nostra comunicazione artistica: è stato così che abbiamo deciso di portare il gospel sulla nostra strada”.

Il gruppo si forma a Modena nel 2009 e gravita nell’orbita della Contemporary Christian Music, movimento socio-musicale di respiro internazionale poco presente nel panorama italiano.

Nel mondo anglosassone il tema religioso è preponderante nei contenuti, nei testi e nell’ispirazione musicale: si parla di Dio senza inibizioni”, continua Grazia. “Un musicista spagnolo mi fece notare come nel mondo neolatino sia rarissimo che un autore affronti apertamente temi religiosi. E mi raccontò di aver avuto successo con un brano in cui parlava di amore per Dio, senza però mai nominarlo. Il brano sembrava scritto per la sua ragazza, questo perché nei circuiti musicali commerciali del suo Paese nominare Dio costituiva una sorta di tabù”.

I Rockspel, insomma, decidono di portare sul palco composizioni rockettare ma d’insospettabile vena religiosa e di ambiente gospel, divulgando nomi e storie a noi lontane.

Il loro è uno spettacolo che narra un’evoluzione, un viaggio.

When The Saints go marchin’ in” – suonata dai Rockspel a ritmi forsennati con chitarre lancinanti tali da destrutturare il brano – “era una composizione usata nei funerali jazz di New Orleans a fine ‘800 e riprende molte delle sue immagini dall’Apocalisse di Giovanni”, spiega Grazia. “La presenza di segni cosmici citati nel testo (il sole che smette di brillare, la luna che si muta in sangue, le stelle che cadono, ecc.) anticipa il ritorno del Messia. Il rito della sepoltura è dunque il luogo più adatto per celebrare la fede nella risurrezione e nell’instaurarsi del regno di Cristo, così al dolore per la scomparsa dell’amico, si associa la gioia per il suo avere raggiunto la propria casa nel cielo e il desiderio di condividere la stessa meta”.

Viaggiamo sulle orme di coloro che prima di noi se ne sono andati
Ma saremo riuniti in una spiaggia nuova e soleggiata
Qualcuno dice che questo mondo di problemi è il solo di cui abbiamo bisogno
Ma io sto aspettando, sì io sto aspettando il mattino
In cui il nuovo mondo sarà rivelato.
Oh quando i santi marceranno
Oh quando i santi marceranno
Oh Signore io voglio essere dei loro
Quando i santi marceranno

I contenuti religiosi del brano perdono d’intensità già nella versione storica di Louis Armstrong, che con la sua allegra interpretazione vocale e trombettistica ti distoglie dal senso del testo. I Rockspel fanno anche di più. La loro è un’interpretazione dark rock, con cambi di ritmo, lente atmosfere intervallate a momenti di noise chitarristico che, anzi, forse restituiscono al testo un pathos quasi assente nelle versioni in stile New Orleans. La religiosità, attenuata dall’interpretazione americana in forma di allegra marcetta, qui non si coglie nemmeno più, se non ci fossero le parole di Grazia Mimmo a restituirci i contenuti del brano. “La sezione lenta è quella che riporta una sorta di riflessione esistenziale sul significato della vita terrena per un cristiano. Il ritornello assume invece un ritmo incalzante che nelle nostre intenzioni vuol quasi esprimere il desiderio di costringere i tempi ad abbreviarsi, per poter “marciare coi santi”, al di fuori ormai della dimensione terrena stessa”.

La Contemporary Christian Music in fondo è proprio questo: una forma di comunicazione attraverso linguaggi sonori liberi e attuali. Non c’è alcun disagio negli artisti americani di questo movimento a mutuare stili e forme espressive dei giorni nostri, anche le più commerciali e scontate, per esprimere concetti religiosi. I suoni, infatti, sono tipici delle produzioni odierne: circostanza, questa, che un po’ fa storcere il naso a chi per cultura e sensibilità religiosa è abituato a non mescolare tanto facilmente argomenti religiosi a sonorità da spot televisivo.

Per capire occorrerebbe un rapido ascolto.

Rebecca Saint James, ad esempio, è la tipica ragazza della provincia americana, jeans, camicia bianca e gilet, che canta temi religiosi: lo fa con uno stile assolutamente pop-rock e con i suoni che siamo abituati a sentire nel pop commerciale di oggi. Può assomigliare alla nostra Elisa dei suoi primi dischi, non tanto vocalmente, ma talvolta, forse, per il tipo di sonorità (o di produzione).

God Help Me”http://www.youtube.com/watch?v=huyHrNxfu3Y

I Will Praise You” – https://www.youtube.com/watch?v=EYBvrAAN5o0

Breathe” https://www.youtube.com/watch?v=tTI8HpyDbeE

Alive”http://www.youtube.com/watch?v=vdw5cvj5aws

Gli Switchfoot sono invece una band più marcatamente rockettara, con i suoni roboanti del post grunge e le vocalità dei musicisti di questi anni. A un primo superficiale ascolto la voce del leader talvolta rievoca il cantato di Chris Martin dei Coldplay, talaltra fa pensare agli Oasis e ai Radiohead, e le sonorità sono una mescolanza di pop-rock del trascorso decennio

Always” – http://www.youtube.com/watch?v=gUV6z_uUpQM

Only Hope” http://www.youtube.com/watch?v=xWvtqFddh8k

Afterlife”- http://www.youtube.com/watch?v=j6z-H3_hgEU

You” – http://www.youtube.com/watch?v=qYAAAr5-qkw

I Dare You To Move” http://www.youtube.com/watch?v=nsSR4VrmsRY

Dark Horses” – http://www.youtube.com/watch?v=5_5oE0ijhKg

Meant To Live” – http://www.youtube.com/watch?v=632skZgCTJU

Questa band, obiettivamente, incuriosisce per la varietà dei temi religiosi che affronta. Nel brano “Something More” riesce a mettere in musica nientemeno che le confessioni di Sant’Agostino. Non so perché qui in Italia siano viste come un mattone per eruditi”, dice Grazia “mentre invece i giovani cristiani anglosassoni ne fanno un punto di riferimento”.

Something More” – http://www.youtube.com/watch?v=EKgxMl1-hXs

Lascia stupiti il modo disinvolto e diretto con cui questi artisti parlano di certe tematiche, con un linguaggio per noi persino troppo semplice, tanto da apparire superficiale e scontato, per quanto sincero. “Ma questo è un problema comunicativo tutto nostro, tutto italiano”, continua Grazia. “In Italia Celentano riuscì a cantare “Pregherò” perché aveva una casa discografica sua. Da noi non si usa parlare così. Ti viene in mente qualche canzone esplicitamente religiosa nella musica italiana?”.

Jeremy Camp invece si attesta tendenzialmente sullo stile della ballata rock, più intimistico anche come sonorità. Leggendo sul web scopriamo che si tratta di uno dei più premiati musicisti della Contemporary Christian Music, con successi commerciali di enorme portata nel mercato interno americano, numerosi hits, nominations ai Grammy e riconoscimenti.

Take my Life” http://www.youtube.com/watch?v=pReDCK5OjME

My desire” http://www.youtube.com/watch?v=tMHH-Lvv5K8

The Way” http://www.youtube.com/watch?v=f5CF9OJRKkA

Michael Sweet

Michael Sweet, invece, è più tradizionale nel suo rock blues tipicamente americano. Il suo brano “Ticket To Freedom”, che i Rockspel spesso eseguono come cover, ha il profumo rievocativo di stili “classici” alla Creedence Clearwater Revival (nella loro celebre “Proud Mary”), Steve Miller Band, Allman Brothers Band. I Rockspel illustrano il contenuto dei suoi testi e spiegano che il biglietto per la libertà è la Fede, quella che ti consente di intraprendere il viaggio.

Fai le valigie andiamo via
Forse domani, forse oggi
Sto venendo per te
Conosco un posto che è unico nel suo genere
E’ lontano, ma facile da trovare
Ho pagato in anticipo, c’è solo una cosa che tu devi fare
Vai alla stazione e dì loro
Che stai ponendo la tua fede in me
Dì loro che hai aperto il tuo cuore
Digli che credi, allora avrai ciò che ti serve
E se la vuoi, devi prenderla
Perché senza di essa non ce la farai
Meglio sbrigarsi, stiamo partendo
Prendi il tuo biglietto di sola andata per la libertà
Ho lavorato tutti i giorni
Costruire una casa dove voglio stare
Sangue, sudore e lacrime sono andati in ogni fotogramma
Su un’alta collina così lontana
L’atto è in tuo nome e il mutuo è pagato
Pagato in anticipo, c’è solo una cosa che devi invocare
Niente accade facilmente
Niente nella vita è gratuito
Ma ti darò qualsiasi cosa
Se mi amerai incondizionatamente

Le cover sono utili al nostro spettacolo”, dice Valerio, “servono a introdurre dei brani composti da noi, ma non sono uno specchietto per le allodole: ci aiutano anche a narrare un’evoluzione e un viaggio di un genere musicale che ruota intorno ai testi e che attraversa stili fra loro diversissimi”.

Il vero problema è trovare la collocazione giusta per il nostro tipo di spettacolo”, conclude Grazia. “Bisogna tenere conto degli spazi disponibili, delle aspettative dei locali che ci ospitano, e ovviamente del pubblico. A volte non c’è la possibilità di parlare quanto davvero occorrerebbe, e quindi si fa fatica a spiegare adeguatamente il nostro progetto”.

Non si può, insomma, degenerare nel concerto “didattico”, in una sorta di saggistica.

Comunicare, però, talvolta aiuta, specie ora che nessuno lo fa. E chissà che non sia proprio questo narrare a fare la differenza, e a suscitare quella curiosità che oggi, un pubblico pigro e sazio, non avverte più.

Stiamo preparando la nostra prima uscita discografica per Natale”, dicono i Rockspel (Emilio Pardo, napoletano, chitarra; Alberto Berna, torinese, chitarra; Paolo Tavernari, modenese, basso; Grazia e Valerio, originari di Foggia, voce, batteria e percussioni). “Rispecchierà un po’ i nostri concerti, con una sintesi del lavoro svolto sinora, ma limitatamente ai Gospel tradizionali riarrangiati nel nostro stile. Per il live invece stiamo sperimentando momenti acustici e nuove idee. L’unico problema è il tempo a nostra disposizione, sempre tiranno”.

Approfondimenti:

I Rockspel: http://www.rockspel.com/

Kingdom Faith ad Horsham: www.kingdomfaith.com

Altra band di riferimento sono i Salvador, musicisti di stampo prevalentemente funky latino. La loro “Shine” è un brano che si lascia maggiormente andare alle sonorità pop.

Salvador, “Shine”http://www.youtube.com/watch?v=T0LxeHkELAU

I Petra hanno fatto la storia della contemporary christian music e sono considerati un emblema più che trentennale del rock cristiano. “Enter in” è vangelo “zippato” in un brano rock.

Petra, “Enter In”http://www.youtube.com/watch?v=wZs-tHDawb4

Altro tributo imprescindibile va ai DC Talk, trio che parte nel 1987, conquistando grammy awards come rock band cristiana, ed esportando le proprie proposte oltreoceano, Italia compresa.

DC Talk,“Consume Me”http://www.youtube.com/watch?v=ZnmgH00mD5o

Interessanti anche i loro esperimenti di fusione con l’hip hop.

DC Talk, “Jesus Freak” http://www.youtube.com/watch?v=lYH9FUfCKPI

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 copertina cd inlay esterna

’80, NEW SOUND, NEW WAVE

Vita musica ed eventi nella provincia italiana degli anni ’80

 

’80 NEW SOUND, NEW WAVE (Basile/Nitti, Geophonìe, 2007, ISBN 978-88-903063-0-3)  analizza stili di vita, società e costume degli anni ’80, ma è anche un’inedita storia di piccoli gruppi sorti in giro per l’Italia alla ricerca di una propria nuova identità musicale, sulla scia delle grandi band del decennio passate forse casualmente su palchi di periferia e prime ribalte di provincia.

Con un percorso trasversale in cui si intrecciano i destini di grandi e piccoli artisti, il volume passa in rassegna carriere, discografie, setlists di concerti e le mescola con ricordi personali di gente comune, appassionati, musicisti locali che cercarono di incrociare la propria strada con quella delle nuove star del decennio ’80.

Il risultato è un collage di ricordi, gadgets, memorabilia, considerazioni critiche e notizie inedite sui gruppi new wave: Siouxsie fece una passeggiata nella siderurgica Taranto del 1985, si recò al museo archeologico e dopo pochi mesi diede alle stampe il disco “Cities in The Dust”, città nella polvere, con un vaso greco in copertina. I New Order, dopo il loro concerto tenuto al Tursport Club di Taranto (Sud Italia) il 19 giugno 1982, si recarono al mare e dichiararono poi alla stampa italiana che quella spiaggia di Taranto costituiva il più bel ricordo della loro prima tournee italiana. Poco dopo composero il noto brano intitolato “The Beach”.

Il grande Adrian Borland dei Sound nella notte del 18 maggio 1985, a Taranto, venne portato in giro dai fans tra le bancarelle di una festa patronale, e poi di notte, nei vicoli di una città vecchia irreale e deserta, tra le barche dei pescatori a mangiare un panino, mentre i Bauhaus nel 1982 (il loro concerto costò soltanto 1. 500. 000 di vecchie lire!) se ne andarono in giro scorazzando con dei ragazzi di Taranto in una Renault 5 sotto un diluvio universale, facendosi poi coinvolgere anche in una partita di calcio e di tennis con i pochi fortunati fans presenti nel circolo sportivo che li ospitò (Taranto, 1-2 maggio 1982).

I ricordi di provincia testimoniano la semplicità degli artisti new wave agli esordi, all’alba della loro affermazione internazionale, così come le splendide foto illustrano l’incredulità e la disabitudine di quelle nuove giovanissime pop star ad un successo che si andava consolidando sempre più rapidamente. Lo sguardo e lo stupore di Jim Kerr mentre tiene in mano il quotidiano locale di Taranto che ne celebra l’arrivo in città è immortalato in un’immagine che da sola vale il libro. La partita di calcio e di tennis di Peter Murphy e dei Bauhaus con i ragazzi del luogo, le prime immagini dei New Order dopo la perdita di Ian Curtis in occasione del loro esordio in Italia, sono un cimelio fotografico. Il volume è stato realizzato interamente con materiali reperiti nei circuiti del collezionismo privato e amatoriale.

Pregevole, infine, è una discografia essenziale del decennio che spazia dai grandi nomi sino a quelli di nicchia, dal collezionismo più efferato alla cultura underground, con catalogazione per sottocategorie e generi (“i frivoli”, “gli ipercolti”, “i dark wave e gotici” , “i post punk”, “gli elettronici”, “i precursori” etc. ).

© Geophonìe

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ROCKSPEL, ALBUM DI ESORDIO

finestrapoisonCon “Niente paura Joshua”, realizzato con Geophonìe, la street-band modenese giunge al suo battesimo discografico e introduce la Contemporary Christian Music nel panorama musicale italiano.

Hanno scelto l’Associazione Culturale Geophonìe per autoprodursi, e dopo diversi mesi di artigianale passione domestica, “passione” autentica, intesa come “fatica e tormento”, hanno dato alla luce il proprio primo disco. Nello studio di una casa discografica sarebbe stato tutto più semplice, col conforto e l’ausilio di tecnici del suono specializzati, consulenti e interpreti. Ma i Rockspel sono una street-band che non bazzica i circuiti ortodossi, suonano se e quando hanno qualcosa da dire e da trasmettere, senza contratti, impegni e condizioni. Fedeli a questo approccio, anche l’urgenza del disco, della sua realizzazione e pubblicazione, è stata vissuta con un impegno tutto proprio, assecondando gli slanci e i tempi nei quali certi impulsi emergono, chiusi tra quattro mura quando si può, col sole o le nebbie fuori dalle finestre, dopo il lavoro, la sera, o a prima mattina. Fare tutto da soli è un limite, ma è anche un’opportunità, un’avventura. Per certi versi è una crescita. La produzione, quella vera, costruisce immense sovrastrutture a supporto dei musicisti, li sostiene, talvolta li “sorregge”, nel senso che crea dei valori aggiunti attorno al prodotto, gonfiandolo, arricchendolo, portandolo al di là delle oneste intenzioni e delle reali capacità degli artisti. Così operando, le sorprese possono essere clamorose, ma la sostanza reale di un prodotto o di un autore la si riscontra poi dal vivo, dove non si può bleffare.
Il disco dei Rockspel non avrà certo quei valori aggiunti apportati da illuminati tecnici e arrangiatori o consulenti del suono, ma per questo ha il pregio di fotografare la band per ciò che è realmente, senza finzioni, camuffamenti e forzature. Un disco onesto e vero, un’istantanea della band ad oggi.
Il lavoro si inquadra perfettamente nella concezione artistica della Contemporary Christian Music, in cui si pensa ai contenuti, e in cui la sonorità prescelta per rappresentarli ed esprimerli è solo un vestito, un abito da indossare senza troppe pretese.
I lavori di Rebecca Saint James, degli Switchfoot, di Jeremy Camp, di Michael Sweet, girano intorno ai testi e si avvalgono di atmosfere di volta in volta pop, country, rockblues tradizionale, eccetera. Ascoltando i loro dischi ci si imbatte in sonorità già sentite, in schemi musicali già noti. Un ascolto limitato alla parte sonora, che non colga la fusione dei suoni con quei testi, rischia di produrre un giudizio riduttivo e quindi incompleto di questi lavori. Se però si decide di fare uno sforzo in più, e si prova a recepire il messaggio complessivo anche attraverso i testi, ci si accorge che l’espressione musicale nel suo complesso non è affatto scontata, come forse ad un primo superficiale approccio potrebbe apparire.
Ebbene, il disco dei ROCKSPEL merita di essere compreso proprio con un siffatto approccio. E’ un disco di traditionals, totalmente rielaborati in un rock dalle sonorità ben conosciute. Se si saltasse il passaggio della lettura dei testi (elegantemente riportati nel booklet interno, in lingua originale inglese e nella contestuale tradizione italiana) si andrebbe sicuramente fuori strada nell’opera di comprensione del lavoro. Se invece a questa lettura ci si presta, le stesse sonorità ne guadagnano, sino a risultare persino inedite, perché armoniche, e in originale sintonia con questi testi. Si tratta di nove brani con cui i ROCKSPEL esternano la propria attrazione per lo Spirito che animava il popolo degli schiavi afroamericani.
lenzotti12b-light“La scelta del repertorio non è stata dettata dalla passione del gospel in quanto genere musicale in sé”, si legge nelle note di copertina. Ciò che la band vuole rievocare è quella spiritualità che teneva unito quel popolo. “Gli schiavi leggevano la storia del popolo ebraico raccontata nel Vecchio Testamento, come un’anticipazione del destino del popolo africano in esilio”.
Il Gospel e gli Spirituals, dunque, erano un mero veicolo, per realizzare quella unità. Come lo è oggi il rock per questa band, che tra i suoni Fender elettrici di Emilio Pardo e Valerio Corvino, e quelli acustici di Alberto Berna, ti parla di Mosè ( “Go Down Moses” ), della guerra per la conquista di Gerico ( “Joshua fit The Battle Of Jericho” ), e della “terra promessa”, ma agli schiavi afroamericani, e poi loro negata ( “Nobody Knows The Trouble I’ve Seen” ).
L’esordio dei ROCKSPEL è di sicuro impatto culturale. Un’operazione di valorizzazione e recupero di brani noti e meno noti, ma di cui pressochè sempre si è ignorato il vero contenuto e la profonda sostanza storica. Come “Oh Happy Day”, o come “Oh When The Saints Go Marchin’ in”, rimbalzati per decenni tra spot pubblicitari, documentazioni televisive d’epoca e rielaborazioni di ogni genere. Sono brani che i ROCKSPEL ripropongono, ma offrendoci anche ‘pillole’ di storia inedite e nuove visioni sonore.
Di sicuro impatto anche l’interpretazione di Grazia, lead singer della band intorno a cui si stringe il gruppo per valorizzare il suo particolare timbro vocale. “Since I Laid My Burden Down”, da lei cantata con modalità differenti rispetto agli altri brani del disco, conduce il gruppo su itinerari sonoro-mentali non-rock, ma di pura atmosfera, tra un dream-pop à la Cocteau Twins e atmosfere astrattamente trip, lente, anni ’90, a dimostrazione di una versatilità senz’altro apprezzabile.
“Niente Paura Joshua”, dunque, opera prima dei ROCKSPEL su disco, può consegnarsi al mercato come prodotto assolutamente gradevole, godibile, di buon gusto, equilibrato anche negli stimoli culturali che infonde, in modo discreto, a piccole dosi.

giuseppe basile © geophonìe
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LA COLLEZIONE DE SIATI: UN PATRIMONIO DELLA FOTOGRAFIA

Gli Archivi fotografici di Paolo De Siati rappresentano la più ampia e organica raccolta esistente di immagini della Taranto del ‘900, un autentico tesoro documentaristico. Un ritratto della società jonica, dei suoi stili di vita e di un mondo economico e culturale ormai estinto.

Paolo De Siati (25.1.1895 – 27.10.1960), tarantino, è un nome noto nel mondo della fotografia di cui ancora si sente parlare, nonostante sia scomparso oltre cinquant’anni orsono.

Spesso, infatti, la sua opera fotografica ha suscitato attenzione e interessi, sia per il suo indubbio valore illustrativo e documentaristico del territorio pugliese e di Taranto in particolare, sia anche per questa sua attitudine rievocativa e di testimonianza di un’epoca, con tanti scatti memorabili che descrivono costumi e stili di vita della prima metà del ‘900.

Vi sono, in effetti, negli archivi De Siati, immagini di Taranto assolutamente uniche, molte delle quali sono poi entrate a far parte dell’iconografia della città, grazie soprattutto all’attività commerciale del suo negozio di ottica sito in Taranto alla via Di Palma angolo via Pupino. In quello storico esercizio commerciale, gestito dai figli fino alla sua cessazione del 1995, molte di quelle immagini vennero custodite e diffuse, spesso anche gratuitamente, ad amatori, alla stampa e all’editoria, trovando quindi la loro giusta e meritata notorietà.

Ma l’attività fotografica del Paolo De Siati puro fotografo, artista e sperimentatore, rigoroso artigiano dell’immagine, non ha incontrato particolari occasioni per essere svelata al grande pubblico come è avvenuto per l’attività documentaristica. Uno studio dedicato ai suoi lavori privati, ai ritratti di gente comune, ai paesaggi in bianco e nero degli anni ‘30 e ’40, consentirebbe oggi di cogliere la qualità fotografica di certe istantanee, frutto di lunghe prove e di soluzioni tecniche, sia in fase di realizzazione che di stampa.

La collezione privata della famiglia De Siati, infatti, costituisce un esempio più unico che raro dello stato dell’arte fotografica nell’Italia della prima metà del ‘900. Attraverso lo studio delle sue immagini si scoprono, talvolta, scelte operative, correttivi e ritocchi artigianali, stili d’immagine: tutte cose realizzate con i mezzi di allora. Ma si scorge anche la modalità antica del lavoro di fotografo, il suo approccio alla macchina tutta meccanica, senza aiuti, tutori, autofocus, misuratori della luminosità. La macchina fotografica era un congegno muto, che solo la mente del fotografo poteva condurre. Riuscire a ottenere da quelle strepitose ottiche la massima resa era una scommessa da vincere solo con l’ausilio delle proprie conoscenze e capacità.

Appostarsi dietro l’obiettivo e attendere: che una certa luce diventi più morbida, che la nuvolosità vada a diradarsi, che certi riflessi del sole non risultino molesti. Questo era (anche) il mestiere del fotografo professionista. La fotografia del passato, sino all’avvento della macchina digitale, era il prodotto di lunghe attese, di ritorni sul luogo dello scatto, di ripetute prove. Si cercavano le condizioni ottimali per ottenere un dato effetto. La luce dopo il temporale, il controluce di un pomeriggio assolato, il contrasto tra luci e ombre. Ombre lunghe, raggi di sole obliqui e fendenti, nuvole basse, cieli azzurri e nitidezze da brivido. L’arte fotografica consisteva, prima di tutto, nel saper aspettare. L’attesa paziente, la tenacia, erano il requisito iniziale necessario per poter scattare l’istantanea immaginata. Se la natura e la fortuna soccorrevano il fotografo, offrendogli le condizioni sperate, l’opportunità doveva sposare la prontezza, la tempestività, il ricorso a chiare cognizioni tecniche per far sì che quel dato momento, quella specifica posa, venissero catturate.

A volte la fotografia realizzata dopo estenuanti appostamenti, tentativi falliti, occasioni sprecate, esperimenti sbagliati, assomigliava alla pesca: l’attesa, la rapidità del momento, la concentrazione nel cogliere l’attimo. L’immagine era la preda. Ma a differenza della pesca, qui non bastava accaparrarsi la preda catturandola alla meglio. Catturare un’immagine vuol dire, talvolta, catturare un dettaglio di quell’immagine. La folata di vento improvvisa sugli alberi d’autunno. Il banco di nebbia minaccioso sulle rotaie del treno. L’atterraggio degli uccelli sul campo incolto alle prime luci del mattino gelido, fra le ultime ombre torbide della notte che se ne va. Tutto questo è produzione fondata sulla dedizione.

Oggi è molto più semplice. Con la post produzione si arriva a fare quello che nel momento creativo originario non si è saputo o voluto fare. Una grande conquista della tecnica. Rileggere oggi certe immagini di Paolo De Siati dopo aver acquisito la pratica della post produzione, del ritocco, dell’elaborazione, produce emozione e stupore. Proprio per la facilità con cui ormai si riesce a intervenire sull’immagine sino a stravolgerne la sua stessa essenza, si comprende la difficoltà sottesa ad uno scatto degli anni 30 in cui certi dettagli volutamente risaltano. Questione di costanza, di tecnica, di immaginazione della resa finale.

La fotografia del passato dimostra quanto fosse importante prefigurarsi un certo effetto, per poterlo efficacemente realizzare. Oggi quello stesso effetto lo si produce con mille prove in laboratorio, persino in modo involontario. E questo dimostra quanto fosse grande la capacità visiva e tecnica dei fotografi del passato nel prefigurarsi quel dato risultato e nel cercarlo intenzionalmente.

Il lavoro di Paolo De Siati, dopo le produzioni dell’Editore Schena (1994) e delle Edizioni Archita (2002), si spera possa tornare alle stampe. L’Associazione Geophonìe, se officiata dagli eredi De Siati, ne sarebbe grata e orgogliosa.

Pubblichiamo un breve testo che a fine 1994 venne scritto da Jolanda Pavone e letto in pubblico da Lucilla Pavone – nipoti di Paolo De Siati – in occasione della presentazione del volume “Taranto nelle foto di Paolo De Siati” (ISBN 88-7514-701-9) realizzato da Roberto Cofano per l’Editore Schena. La presentazione avvenne a Taranto in una sala del glorioso Bar La Sem di via Giovinazzi.

Ricordo di mio nonno, Paolo De Siati.

A cent’anni dalla nascita di Paolo De Siati, la pubblicazione di un libro che raccoglie alcune delle sue foto più belle è il modo migliore di ricordarlo.

Don Paolo, “Malatièmpe”, mai nomignolo fu più azzezzato, amava il grigio, maschera dietro la quale si nascondono gli uomini fatti di concretezza e di ideali. Lo amava in tutte le gradazioni, quello delle giornate piovose e della vita attiva, dei mattini freddi e dell’altruismo, delle difficoltà e delle soddisfazioni che derivano dal farvi fronte. Di ciò testimoniano le sue fotografie, nitide ed eloquenti, e la sua vita, sobria e coraggiosa. Sempre pronto a sfidare le incertezze del domani, mio nonno era pronto a rimetterci di tasca propria, quando le cose fossero andate male. Era generoso con tutti e, nel lavoro, animato da passione, creatività e inventiva. Era simpatico e gioviale, un po’ mattacchione, proprio come il figlio Lillino, mio zio, che da un ritratto satirico nel negozio di via Di Palma a tutt’oggi cerca, con la lente d’ingrandimento, una città che ancora non riesce a trovare: la nostra città, lontanissima ormai da quella che accolse don Paolo e la sua lunga avventura.

Taranto, e le foto che la ritraggono, si rincorrono nei miei pensieri fino a fondersi in un unico quadro, ricco di bianco e nero, di chiaroscuri e affetto. Ne sono artefici mio nonno e la sua opera, artefici che mi consentono di tuffarmi nel passato mentre guardo al futuro ed all’oggi, senza limiti di spazio e di tempo oltre quelli delle sue fotografie. Sarà anche il conoscerne l’autore, ma osservare una foto di don Paolo è come salire sulla macchina del tempo. Gustarne una raccolta intera, poi, fa andare a cavallo della storia e dominarla. In quelle foto austere e pulsanti c’è tutto Paolo De Siati, le sue giornate, la sua vita. Immagino il suo orgoglio nel constatare il seguito di cui gode l’opera che ci ha lasciato, crescente e ininterrotto nel tempo.

La vitalità delle immagini coincide con la passione di chi riesce a tradurle in fotografie. E queste riflettono l’animo del fotografo. Mio nonno vedeva il mondo attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, e viveva pronto a fermarlo con uno scatto, qualsiasi cosa facesse. Si trattasse di momenti futili o importanti, di immortalare persone o vie o piazze, di fissare attimi predisposti oppure colti all’improvviso, don Paolo c’era, sempre. Pronto a regalare qualche frammento di vita vissuta ai posteri.

Sono cresciuta specchiandomi nelle fotografie raccolte nel libro ed in mille altre, ugualmente significative, che non vi hanno trovato posto. Tutte appartengono, senza distinzioni, ai miei sentimenti e ai miei ricordi.

Grazie nonno.

Ringrazio l’Autore Roberto Cofano, Giovanni Acquaviva, Ornella Sapio, l’Editore Schena e quanti hanno consentito la pubblicazione del libro, dallo stesso autore dedicato a mio zio Lillino, per il suo prezioso contributo.

Concludendo voglio ricordare proprio zio Lillino, prezioso sempre, come sanno molti di voi avendolo conosciuto e frequentato. Zio Lillino amava la musica, gli amici e la compagnia non meno della sua vecchia e fedele camera oscura. Amava la vita come nonno Paolo, e così voglio ricordare entrambi. Amava e custodiva gelosamente le raccolte di fotografie paterne, che ben volentieri, però, ha messo a disposizione dell’autore per la realizzazione di questo libro.

Jolanda Pavone

(a nome dei figli di Paolo De Siati: Davida, Giovanna, Erasmo, Elena e Giulia)

COMUNITA’ UMANE IN CERCA D’AUTORE

Le idee, e le aggregazioni umane attorno ad esse, talvolta si formano e si sviluppano in modo del tutto occasionale, per puro caso o per contingenze specifiche. L’Associazione Culturale Geophonìe vide la sua genesi per far fronte a una contingenza imprevista.

Era il 2007, e già da un anno lavoravamo a un progetto editoriale volto a riesumare una storia di cultura musicale locale: dopo aver rovistato tra fotografie e cronache di stampa d’epoca che illustravano una serie di concerti rock realizzati a Taranto e in Puglia negli anni ’80, avevamo infatti deciso di utilizzare questo materiale per la realizzazione di un volume documentaristico.
Mentre il nostro lavoro di autori procedeva e prendeva forma, tuttavia, alcuni editori amici espressero delle perplessità in ordine alla possibilità di utilizzare liberamente tali reperti fotografici e di stampa. A fronte delle esitazioni manifestate dai gruppi editoriali interpellati, dovemmo convenire sulla difficoltà di pubblicare il nostro lavoro fotografico in assenza delle necessarie liberatorie previste dalla legge 633/1941 sul diritto d’autore.
Lo scopo di lucro, infatti, che caratterizza e qualifica la natura stessa dell’attività editoriale quando viene svolta in forma imprenditoriale, preclude quella “libera utilizzazione” di testi e immagini che era nelle nostre intenzioni.

Fu così che, per ovviare a questo ostacolo, ci ritrovammo a costituire un’associazione culturale senza scopo di lucro, in modo da poter attingere a patrimoni fotografici e di stampa utilizzabili in pubblicazioni caratterizzate da finalità scientifiche, didattiche, culturali.
L’Associazione, che denominammo Geophonìe, orientandola verso i nostri interessi musicali, ha raccolto, anche a seguito della nostra prima pubblicazione (“80 New Sound, New Wave”) testimonianze di gruppi di appassionati, desiderosi di raccontare storie private e di comunità ristrette.
Alle prime storie pervenute, per lo più legate alla musica e agli ambienti di provincia in cui tali piccole comunità umane erano fiorite, ne sono seguite altre, provenienti da ambienti del tutto differenti. C’è chi ha raccontato vicende belliche vissute con gruppi di militari poi rimasti in contatto, chi ha illustrato storie di comunità scolastiche, chi invece ha aperto archivi fotografici privati mostrandoci testimonianze di luoghi, stili di vita passati e rievocando culture circoscritte.
Attraverso questi contatti ci siamo accorti che un’esigenza di questa nuova società globalizzata e pluriculturale è quella di far convivere, accanto ai grandi disegni della macro-storia, storie minime che rappresentano l’identità della gente comune in un quotidiano passato o presente.

In questi anni è accaduto frequentemente che dopo l’interesse alla ricostruzione di tematiche storiche di ampio respiro, sia fiorita poi una letteratura incentrata sugli effetti e le ripercussioni che i grandi eventi hanno prodotto nella vita pubblica o privata di micro realtà sociali. Ne sono un esempio i libri di Gianpaolo Pansa sulle vittime della guerra mondiale dal versante dei vinti, o quelli sulla cultura hippie nelle realtà della provincia italiana degli anni ’60 e 70’, o ancora, quelli sulle economie rurali e locali all’alba o al tramonto di grandi scelte economiche e di pianificazione in certe aree.
Quello che ci ha colpito è stata l’esigenza di certi testimoni del tempo di affidare a una nuova editoria storie preziose e nascoste, storie private ma emblematiche, difficilmente utilizzabili da una grande editoria commerciale, ma assolutamente significative in ambiti culturali più ristretti.
Abbiamo allora pensato che le culture di tante micro realtà e di tante comunità umane circoscritte potrebbero oggi, grazie a iniziative editoriali sostenibili, trovare una meritata visibilità, sia attraverso pubblicazioni telematiche, sia mediante i sempre amati libri cartacei la cui produzione oggi è favorita da possibilità tecniche di minor costo.

Geophonìe, dunque, si propone per una nuova progettualità, sempre fondata su logiche associative e finalità non lucrative.