SYNNE SANDEN: INCONTRO CON L’UNIVERSO

Synne Sanden, Photo by Siobhan Beasley

L’artista norvegese presenta il suo nuovo entusiasmante lavoro, si chiama “Unfold”,  pubblicato il 17 Febbraio 2023, per la “Nordic Records“.  Lavoro armonioso e identitario:  Synne Sanden  esplora la sua anima e concede a noi tutti di coltivare e custodire nei nostri ricordi le sue gemme preziose, frutto di esplorazioni musicali e passione.

Espressione di vitalità? Espressione di esistenza?

Espressione, direi, di coscienza, con cui viviamo in simbiosi sin dalla nascita.

Ognuno di noi ricerca quella fessura luminosa da cui ripartire per esprimersi, guardando il futuro: quel futuro che per alcuni, o molti, rappresenta un vivere semplice, lontano da prigionie,  un luogo musicale ove si esplorano nuove possibilità di comunicazione, anche visive e letterarie, oltreché sonore.

Sono queste le considerazioni che si presentano ascoltando il nuovo lavoro di Synne Sanden, Unfold, composto di dieci nuovi brani e che segue il precedente e bellissimo Imitation del 2019.

L’artista norvegese si erge con maestria e disinvoltura nella composizione e pone al centro della sua arte la plasticità dell’uso della voce. Il suo canto esprime dolcezza, dolore e infine pathos che culmina in luminose aperture verso intime riflessioni.

Synne Sanden, photo by Martine Hovind

In questo viaggio sonoro Synne Sanden si fa accompagnare da musicisti validissimi che suonano una varietà di strumenti con cui accarezzano e portano in alto la sua espressione più intima. Oltre agli strumentisti che fanno parte della sua band, Jørgen Apeness, Julie Kleive, Henrik Schmidt e Lars Fremmerlid, si aggiungono Ellen Bødtker, che suona l’arpa in due brani, e Lise Sørensen, agli archi in buona parte delle canzoni.

Nelle rappresentazioni live di Synne Sanden scopriamo un mondo variegato di suoni dal sapore lontano e che molto bene si unisce suoi testi. L’evento live non è solo presenza, ma è anche danza, gestualità e movimenti del corpo che risultano propri dell’arte della Sanden.

Un connubio professionale lega Synne Sanden con la designer tedesca Carina Shoshtary, collaboratrice anche di Bjork, la quale disegna le maschere che la Sanner indossa durante le esibizioni live e nei video promozionali dei singoli in uscita.

Prima dell’uscita dell’album “Unfold” sono stati pubblicati due singoli che sono “Like neon” e “Firewood” , accompagnati dai rispettivi video.

https://www.youtube.com/watch?v=dIky5rDl12Y

https://www.youtube.com/watch?v=teSKGsLYYXs

L’album “Unfold“, uscito il 17 Febbraio 2023 per la “Nordic Records“,  conferma le capacità di Synne Sanden e del suo gruppo. Il risultato è unico. La fusione che nasce dal coinvolgimento dei partecipanti ha momenti di intensa ricerca interiore.  Synne Sanden esprime il proprio sentire profondo in atmosfere di libera serenità e di rottura verso condizionamenti e abusi. L’artista indaga l’inconscio della natura umana per segnalare l’unicità di ciascuno di noi,  in ogni aspetto, e per ricordare con estrema fierezza che la forza, intesa come volontà interiore, andrebbe usata per scopi pacifici e solidali e non per sottomettere o, ancora peggio, per imprigionare e creare sofferenza.

Synne Sanden non nasconde attraverso giri di parole il suo messaggio, quello di poter vivere il valore della propria sessualità senza imposizioni o costrizioni. Il vissuto femminile evidentemente ancora sconta zone d’ombra costellate di dolore e traumi da cui dover in qualche modo elevarsi, e con i suoi testi l’artista evoca e trasmette un pensiero di unità e di rispetto.

Ascoltando l’intero lavoro raccolgo le perle  “Forced Restraint“,  in puro stile “Nu Jazz”,  che avvolge e delinea una nuova miscela da fondere con il cantato; “Witness“, con un intro soave  à la Cal Tjader;  e poi “Images“,  dove il canto invocante si adagia in un tappeto sonoricamente sottile ed etereo. Continuando, germoglia la stupenda “Rubberband” con tutta la sua brillante epicità.

I brani dei due singoli “Firewood“, e “Like Neon“,  svelano apertamente il messaggio di Synne Sanden, quello di essere liberi di vivere la propria intimità senza obblighi o imposizioni. “On needles” rimanda lo sguardo verso riflessi a pelo d’acqua per incontrare sè stessi. E ancora, la finale “Inhalation“, struggente, delicata, dove sussurri e abbracci danzano in armonia.

L’album è prodotto da Lars Horntveth, attuale bandleader dei Jaga Jazzist.

https://www.youtube.com/watch?v=15IGXk46yfk
https://www.youtube.com/watch?v=1p0eDlvpwbU

Marcello Nitti  © Geophonìe
26/02/2023
Diritti riservati

Vinicio Capossela, Le radici del Florìda

Vinicio Capossela (01.06.22, Modena, Teatro Comunale Pavarotti) G.Basile © Geophonìe

Modena, 01.06.2022, Teatro Comunale Pavarotti

Ciascuno di noi ha delle radici, quelle che ci determinano, che ci condizionano, che costruiscono l’approccio al mondo  con cui elaboriamo le nostre visioni.

Quando si ascolta Vinicio Capossela, però, e soprattutto si pone attenzione ai suoi testi, quelle liriche ci risultano talmente piene di immagini, personaggi, luoghi e suggestioni che è difficile individuare le sue: “I suoni fanno da sfondo ad un mondo immaginario. Un mondo pieno di guai, affollato di guitti stralunati, strade chiassose e vecchie macchine”.  E’ una musica, la sua, che richiama echi di jazz, di Sudamerica, di melodia tradizionale italiana del secolo scorso, ma anche di musica etnica, in una contaminazione imprevedibile di profumi di Mediterraneo e di Messico, di Cile, di blues teatrale.

 

Flacoleo Maldonado “Flaco” e Vinicio Capossela (Modena, 1.6.22, Teatro Pavarotti) G.Basile © Geophonìe

 

E’ difficile collocare Vinicio in uno scenario musicale specifico, e la sua storia biografica personale talvolta neppure aiuta.  Il 1° giugno 2022, però, nel concerto al Teatro Pavarotti di Modena Vinicio ha festeggiato i suoi trent’anni di carriera (trentadue, per la precisione) davanti a una folla di appassionati e amici (tanti) accorsi a salutarlo e con i quali si è magicamente manifestata quell’atmosfera di familiarità, di affetto e condivisione che ha mostrato a chi ne era estraneo le radici di questo cantautore particolare, apparentemente estroverso e gioviale, ma anche misterioso, tenebroso e criptico, tante sono le sfaccettature che la sua musica e i suoi testi offrono.

Vinicio Capossela e Antonio Marangolo (G.Basile © Geophonìe)

Una musica e un linguaggio complesso, quello di Capossela, talmente denso e ricco di storie, significati, suggestioni, che in questo caleidoscopio si fatica a trovare lui, la sua anima, l’interiorità che si nasconde dietro quei sorrisi goliardici e quelle oscurità notturne che lui espone con un pathos tutto suo, che fa emozionare, commuovere, ma che poi inaspettatamente vira verso una gioiosa socialità fatta anche di storie raccontate, di aneddoti, di presenze o assenze di amici evocati o convocati all’improvviso sul palco, per bere un bicchiere di vino, recitare una poesia, cantare senza regole come in un’osteria.

Vinicio Capossela (Modena, 01.06.22, Teatro Pavarotti) (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Il concerto di Modena, nonostante la sfuggente natura di Vinicio, però, è tutto per la città attorno alla quale ha gravitato per anni incrociando i suoi destini con anime elette che lui porta con sè e che stasera esplicitamente celebra. Con lui c’è Antonio Marangolo al Sax, un monumento della storia musicale italiana, di questa musica, quella che dall’Emilia e dal Piemonte ha generato la miscela di jazz, di tropicalismi, di atmosfere cantautorali tipicamente italiane  e cariche di contaminazioni con cui Paolo Conte ha descritto  “un mondo adulto”, quello in cui “si sbagliava da professionisti”, ma c’è anche Enrico Lazzarini al contrabbasso, che durante la serata cede il posto ad un ospite, Glauco Zuppiroli, modenese, uno degli iniziatori assoluti del percorso artistico di Vinicio.

Da sin. Glauco Zuppiroli, Alberto Nerazzini, Flaco e Vinicio Capossela (Modena, 01.06.22, Teatro Pavarotti. – Giuseppe Basile © Geophonìe)

I fidati Zeno De Rossi alla batteria e Giancarlo Bianchetti alla chitarra compongono l’ensamble centrale del concerto che spazia fra tutti i classici del repertorio, tutti brani che il pubblico modenese segue con attenzione perchè conosce perfettamente.

Molti racconti sul Florìda, sulla Stazione Piccola, sui girovaghi notturni di una Modena  diversa da quella che conosciamo si susseguono, sul palco Vinicio si muove come un gran cerimoniere: all’improvviso invita un anziano signore, a suonare e cantare con lui, si chiama Flacoleo Maldonado, detto Flaco, un fondatore del Florìda e un decisivo importatore di ritmi e parole sudamericane, un profugo, un intellettuale, un bevitore.

Si parla, si suona e si canta, anche quando sul palco si aggiunge Alberto Nerazzini, giornalista che spazia tra testi, poesie e ricordi di una modenesità di nicchia, quella legata a un Florìda ove si parlava di Cile, di dittature, di donne e di ritmi da ballo fuori moda, di un altro mondo.

I brani del suo disco d’esordio, “All’una e trentacinque circa” vengono eseguiti quasi tutti, l’omonimo brano viene ripetuto anche come bis, ma il concerto regala anche  “Che coss’è l’amor”, “Non è l’amore che va via”, “Tornando a casa” , “Il mio amico ingrato”“La regina del Florida”, “Ultimo amore” , “Camminante”. Serata modenese, serata mistica in cui la musica di Vinicio e un pubblico competente e appassionato svelano un magico senso di reciproca appartenenza.

Giuseppe Basile © Geophonìe
(06.09.2022)

 

 

 

 

PINDHAR: Live in Taranto, 23.10.2021, SpazioPorto

Pindhar, 23.10.2021, Taranto, SpazioPorto – (Foto Franzi Baroni © Geophonìe)

Il duo milanese a Taranto, allo Spazioporto, esegue dal vivo il proprio disco del 2021, “Parallel”.

23 ottobre 2021. Una serata tiepida autunnale di fine Ottobre accoglie i Pinhdar a Taranto nel nuovissimo “Spazioporto”. Prima di entrare è possibile scambiare opinioni sulla band milanese che ha all’attivo due album, e questa sera l’aspettativa è  quella di di poter apprezzare i loro nuovi brani in versioni dal vivo.

I Pinhdar sono Cecilia (voce e sentimento) e Max (chitarra e tastiere), si esibiscono con l’aiuto di Alessandro Baris alla batteria.

L’attesa è piacevole grazie alla comoda sistemazione dei posti a sedere. Personalmente attendevo con interesse questo concerto per ascoltare dal vivo una band italiana che a mio parere ha realizzato uno dei migliori album (Parallel) in Italia del 2021.

Le aspettative erano concrete per via delle eteree e sognanti atmosfere delle composizioni di Parallel, pubblicato dalla britannica “Fruits De Mer”,  co-prodotto insieme ad  Howie B (Howard Bernstein), stimatissimo produttore (fra l’altro anche di  Siouxsie and the Banshees).

“Corri” e “Parallel” sono già di per sè bellissime, ma dal vivo si animano con passione, grazie alla grande bravura al canto di Cecilia e al mosaico chitarristico di Max.

 

Pindhar, 23.10.2021, Taranto, SpazioPorto – (Foto Franzi Baroni © Geophonìe)

Attraverso le loro composizioni, che inducono a cambi di umore in ascensione,  i Pinhdar riescono a suggestionare e  creare mondi armoniosi.

Nel cuore del concerto si assiste a un meraviglioso inseguirsi di voci e suoni che rendono avvincente la scena, creando un pathos di grande intensità.

Una conferma auspicata, quella dei Pinhdar, che hanno potuto dimostrare grande padronanza di esecuzione e di magica tensione emotiva. Il concerto si sviluppa intorno al loro secondo album Parallel:  la performance è fantastica e ben apprezzata dal pubblico che segue con attenzione, per poi applaudire con grande sostegno ogni brano.

 

 

Pindhar, 23.10.2021, Taranto, SpazioPorto – (Foto Franzi Baroni © Geophonìe)

Il concerto si chiude con due brani che concludono una serata speciale dimostrative della caratura internazionale della band milanese che con originalità e talento ha proposto la propria arte musicale con grande maestria.

Le ricerche sonore e vocali dei Pinhdar derivano da profonde radici che toccano anime sensibili e  cuori gentili.

I Pinhdar sono una realtà che con il loro album Parallel si affermano come una band di grande spessore emotivo.

Il loro concerto è stato la celebrazione delle loro emozioni.

Insieme sicuramente al loro prossimo concerto.

 

Marcello Nitti © Geophonìe
Foto: Franzi Baroni

 

LA GIOIA DI VIVERE DI HUNT SALES, DOPO IGGY POP, BOWIE E TIN MACHINE

Hunt Sales Memorial, ‘Get Your Shit Together’ 2019, © Big Legal Mess / Fat Possum Records

[English version here]
4 Gennaio 2022
Due chiacchiere con Hunt Sales, celebre batterista del rock evolutivo di fine ’70 in America. Collaborò per anni con Iggy Pop e David Bowie. Era sua la batteria travolgente di “Lust for Life”, brano che diede il tiolo all’epico album di Iggy Pop nel 1977. In Italia potemmo vederlo dal vivo solo nell’ottobre 1991 con David Bowie e i Tin Machine al Teatro Brancaccio di Roma. 

Nel 2019 un’etichetta americana denominata Big Legal Mess / Fat Possum Records ha dato alle stampe un prodotto discografico inatteso. Si tratta di un lavoro solista realizzato da un musicista di lungo corso, ma che solo in età avanzata ha deciso di costruire un “esordio” artistico a proprio nome. Stiamo parlando di Hunt Sales, batterista americano con alle spalle un curriculum sbalorditivo, dal rock’n’roll al blues,  al jazz dixieland, e che ha spaziato ovunque nella grande musica americana,  sempre al fianco di star assolute.

In Italia lo conoscemmo per via della sua dirompente batteria che accompagnò Iggy Pop in quel momento di trasformazione, così evolutivo, della seconda metà degli anni 70. Hunt Sales era con Bowie nella fase berlinese della trilogia, ma noi italiani lo vedemmo per la prima volta solo nel 1991 al Teatro Brancaccio di Roma per due serate irripetibili, alla batteria dei Tin Machine, e avemmo modo di comprendere come Hunt Sales fosse un batterista d’avanguardia, persino quando interpretava un genere quasi retrò: si trattava in realtà di un retrò opportunamente rielaborato, come appunto i Tin Machine seppero fare in quei due dischi incredibili dei primi anni 90, producendo coraggiosamente una musica totalmente contraria a quella che i nuovi venti del brit-pop stavano diffondendo.

Questa produzione solista di Hunt Sales dunque ci ha colpito, perchè non accade mai di realizzare un esordio con un lavoro che in realtà rappresenta una sorta di memoriale, anche sonoro, e culturale. Nel disco “Get Your Shit Together”, sulla cui copertina, infatti,  campeggia in grande la scritta “Memorial”, ci ritroviamo ad ascoltare una miscellanea di suoni profondamente americani, una commistione di vecchio rock’n’roll ma anche di echi di sonorità blues mescolate a quella energia vagamente punk-evolutiva che contrassegnava i suoi lavori con Iggy Pop e altri artisti dell’età di mezzo.

Hunt Sales mentre interpreta il brano “Sorry”, con i Tin Machine al Teatro Brancaccio di Roma, 10.10.1991 (Marcello Nitti © Geophonìe)

La sua storia, quindi, attraverso questa sua pubblicazione, ci ha incuriosito: una storia di vagabondaggio, di droghe, di percorsi itineranti e trasversali tra  generi musicali diversi che sinora aveva probabilmente occultato la direzione artistica interiore che Sales serbava in sè stesso, e che oggi invece affiora.

Sig.Sales, non è facile decidere da dove  cominciare,  ma in qualche modo dobbiamo pur  “rompere il ghiaccio” , come si dice in Italia. Tu hai un’ottima reputazione come musicista e hai sempre dimostrato una forte coerenza musicale con chiunque tu abbia lavorato. Possiamo immaginare che tu abbia sempre suonato con musicisti vicini al tuo feeling, ma che ricordi hai dei tuoi inizi come musicista?  Ti sentivi sicuro o avevi paura di non fare bene?
“I miei ricordi degli inizi sono legati alla persona che diede impulso sin dall’inizio della mia carriera al mio amore per la musica,  Earl Palmer, un famoso batterista di New Orleans che aveva lavorato con Little Richard e Fats Domino. Ero a una sessione di registrazione a 6 anni e lo vidi suonare durante la sessione,  lo incontrai  quando lavorò su uno dei dischi di mio padre e ha cambiato la mia vita. Il fallimento non è mai stato un’opzione: non che io non abbia avuto fallimenti, ma – come si suol dire –  solo  chi non prova fallisce”.

-Quando alla fine degli anni ’70 suonavi con Bowie e Iggy Pop insieme a tuo fratello Tony, molti lodavano il tuo lavoro e l’intro che suoni nella canzone “Lust for life” rimane memorabile. Un “culto” che ancora affascina e produce energia e chiarisce come deve essere il “Rock”! Cosa puoi dirci di quel riff mozzafiato che suoni, che conservi per tutta la canzone e che ritroviamo nel film “Trainspotting”? Com’è nata l’idea della parte di batteria di quella canzone?
“ Si basa su diverse cose. Uno, Motown, “You Can’t Hurry Love”, “George of the Jungle” che è tratto da un cartone animato, e “Armed Forces Radio” a Berlino, in Germania, che è qualcosa che ho sentito molto mentre vivevo a Berlino con Iggy e David. Ho mescolato tutto insieme, e come molte cose nella musica non c’è niente di nuovo, o è come lo prendi in prestito o prendi un’idea per un’altra idea e la fai tua”.

Hunt Sales, Roma, Teatro Brancaccio, 10.10.1991 Marcello Nitti © Geophonìe

-Hai partecipato a due importanti svolte musicali di David Bowie e Iggy Pop, sempre in compagnia di tuo fratello Tony al basso nel periodo berlinese 1976-1977 e con Tin Machine a Montreux e in altri studi di registrazione. Anche oggi la tua interpretazione della canzone “Sorry” rimane una delle migliori canzoni del secondo album dei Tin Machine. Cosa ne pensi dell’esperienza con i Tin Machine oggi? È stato fatto tutto quello che volevi fare con Tin Machine?
“La cosa buona dei Tin Machine è che mi face suonare di nuovo la batteria. Prima dei Tin Machine avevo fatto molto arrangiamento e produzione per altri, ma non molto percussioni. Ovviamente lavorare con David, dopo così tanti anni dopo il 1976-77 con Iggy Pop, essere diventato un po’ più grande e ritrovare David, è stato fantastico”.

Finalmente per chi ama la tua musica è uscito il tuo primo album solista intitolato Hunt Sales Memorial “Get Your Shit Together”. Tu dici in “One day” :  sono solo. Cosa significa per te la solitudine? E’ un modo per fuggire dallo stress della vita, o trovi invece in essa qualcosa che ti dia più creatività?
 “Non si tratta di essere soli. Non si tratta di solitudine. È qualcosa di più, come stare con molte persone, amici di famiglia o sconosciuti e sentirsi soli. Ha più a che fare con un viaggio nella propria  testa,  piuttosto che alla sensazione di non appartenere o adattarsi. E’ un sentimento condiviso da molte persone, come l’outsider, il tossicodipendente, l’alcolizzato. Il sentirsi soli è una sensazione universale. Le persone dicono di sentire un vuoto in loro che non viene mai colmato. Ha a che fare con tutto questo, e anche più”.

Tin Machine, Roma, Teatro Brancaccio, 10.10.1991 Marcello Nitti © Geophonìe

-Oltre all’energia pura, cosa deve esserci in una canzone che suoni? Un testo di una storia vera?
“ Spero che in un modo o nell’altro qualcosa con cui posso relazionarmi debba essere nella canzone che darà il via a un sentimento, o a sentimenti che mi ispireranno. Speriamo che l’ispirazione sia condivisa anche con l’ascoltatore”.

-Il tuo primo album da solista è così reale, secondo me, e mostra il tuo brillante talento come compositore. Anche il tuo modo di cantare è caldo e ruvido nel modo giusto e questo non è comune per un batterista. Cosa c’è di magico per te nel tuo album?
“Ho una band e questa band è composta da me e da un ragazzo di nome Tjarko Jeen che viene dall’Olanda. Ho messo insieme questa band, The Hunt Sales Memorial, 10 anni fa,  la verità è che l’opportunità si è manifestata in un momento marginale della preparazione, il chè significa che ero preparato dopo aver provato centinaia di ore con questo gruppo e aver suonato nel corso degli anni. Quando si è presentata l’opportunità di fare il disco, ero preparato. Il disco è stato fatto alla vecchia maniera, in un lasso di tempo molto breve come i dischi degli anni Sessanta e Cinquanta”.

– Ti piacerebbe fare una serie di concerti in Europa?
“Sì, lo farei. Sto cercando il promoter giusto” .

– Ti senti completo come musicista o pensi che ci sia sempre qualcosa da imparare?
Sì, c’è sempre qualcosa da imparare”.

Cosa sono i sogni per te, signor Sales?
“Venire in Europa e buttare giù tutto”.

Marcello Nitti  © Geophonìe
riproduzione riservata.

Dove acquistarlo:

ITALY
https://www.amazon.it/Your-Shit-Together-Sales-Memorial
U.S.A.
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Pinhdar:  Flussi continui di intime sensazioni

Si intitola ‘Parallel’ il loro nuovo disco. 

In questi ultimi anni l’intreccio tra Musica e Letteratura ha finalmente trovato tributi ragguardevoli, specie se pensiamo al Nobel ricevuto da Bob Dylan, alla laurea ad honorem assegnata a Patti Smith e a tanti riconoscimenti che l’arte musicale colta ormai consegue:  ed è forse da poco tempo, dunque, che un nuovo pubblico riesce ad accostarsi e apprezzare  questa fusione, riconoscendo come talvolta parole ed atmosfere musicali riescano a fondersi, abbracciarsi, creando gomitoli di poesie.

Quale destino ci attende? Invece di ricercarlo, i Pinhdar il loro destino lo realizzano, costruendo trame intime ed avvolgenti.

Non è un caso che Max Tarenzi e Cecilia Miradoli siano ispirati dalla poesia del greco antico,  simbolicamente rievocando Pindaro, e che testi e musiche del loro secondo album siano un condensato unico ed uniforme di sfavillante bellezza.

PHINDAR, “Parallel” (Fruits de Mer Records, Marzo 2021)

Parliamo di artisti italiani che coltivano suggestioni, emozioni, visioni, apparizioni e ne offrono una celebrazione asciutta e profonda. Meraviglie nascoste, ma che possono essere svelate soltanto da un ascolto attento e riflessivo.

La voce di Cecilia Miradoli si lascia trasportare da tappeti di nuvole che accarezzano i sensi più delicati e palpitanti e non solo …… insieme a Max Tarenzi le composizioni diventano piccole opere di respiri rigeneranti.

Ogni brano di questo loro secondo album,  “Parallel” (Pubblicato nel Marzo 2021 in digitale, in CD e in un’edizione limitata in vinile pubblicata dall’etichetta inglese Fruits de Mer Records),  lascia apparire tra le ombre brividi di luce interiore e momenti di maestosa delicatezza.

Elegia dei sentimenti e del vivere l’istante. L’istante è il tempo in cui viviamo e che nutre l’anima che tanto preziosa è per noi tutti.

La musica dei Pinhdar ci abbraccia soffice e cresce in penombra con fierezza.

16/10/2021
Marcello Nitti © Geophonìe
Diritti riservati

 

“Parallel” prodotto da HOWIE B
26 marzo 2021 – 20 settembre 2021
su vinile in UK
Parallel è uno degli album di cui vado più orgoglioso ”
Howie B
Capolavoro del duo italiano con Howie B”
COLLEZIONISTA DI RECORD (Regno Unito)
Dark e atmosferico, tra dream pop e trip hop”
LA REPUBBLICA  (IT)

“Un’istantanea della vita vissuta nel 2020 ”
Prog (Regno Unito)

Fantastico e seducente
Suono elettronico (Regno Unito) 

 

SYNNE SANDEN | “Sentire” e rinascere.

E’ stato appena pubblicato un E.P. di sei brani dell’artista norvegese, intitolato “Swallowed”  (2021, Nordic Records).

Nel campo dell’arte, esprimersi in solitudine e in raccoglimento è qualcosa di necessario per splendere di consapevolezza e verità: osservare se stessi, e riconoscere le proprie sofferenze, è il percorso che aiuta l’artista ad esprimersi in totale sincerità.

Synne Sanden, musicista norvegese, crea e modella la propria arte ricamando armonie che richiamano dolore e rinascita. La sua musica è colma di verità, carica di umana sofferenza in cerca di libertà.

Da pochi giorni Synne Sanden ha pubblicato “Swallowed”, un EP di sei brani che  ad occhi chiusi ci accompagna in un mondo immaginario e solitario intriso di atmosfere ed emozioni evocative di vuoti esistenziali.

Una relazione sofferta e soffocante può celare alla radice problemi mai risolti, o ancora di più, mai affrontati. Il cercare di imporre la propria forza conduce in un luogo dove i sogni di bellezza vengono annullati con freddezza.

La potenza evocativa prodotta dal dolore viene espressa in arte da Synne Sanden, nel suo lavoro realizzato in collaborazione con Øyvind Blikstad che interviene con maestria orchestrando momenti di calma apparente e furore di riscatto.

 

 

Apre Skeleton che abbiamo ascoltato nell’ultimo album “Initiation” e l’arte di Synne Sanden si afferma subito: un cantato struggente e toccante fugge dal legame di forza e dal possesso.Sostenuto da un video bellissimo che racchiude il sentimento delle terre del Nord fatto di simboli e sguardi profondi, si viene trasportati in un sogno danzante e colmo di mistero. Musica avvincente e teatrale. Un capolavoro interpretativo.

 

Dall’inconscio emerge In the Mud, e la scena diventa intima, di fuga e di silenzio per abbandonarsi in Meltdown, che Synne Sanden con voce sublime e sorretta dalle orchestrazioni Wagneriane di Blikstad  esegue con un’interpretazione affascinante.

A seguire Swallowed, il cui tappeto sonoro si fa aritmetico e avanguardista, e dove la voce della Sanden crea un gioiello di intensa emozione: un brano da palcoscenico di altissimo livello.

Paint your fence è stupenda. Un inseguirsi di stati d’animo qua e là sostenuti dalle meravigliose fughe di Blikstad.Una ricerca chiara, forte e assoluta di libertà da un amore finito, malato e accusatorio.

In sintonia arriva Brick by brick, dolce e rassicurante dove le armonie di Synne Sanden scendono nell’intimo per condurre con amore verso la luce.

Un lavoro di grande evoluzione personale per Synne Sanden. Espressione che proviene dall’Io profondo, per approdare ad una propria dimensione di verità e consapevolezza.

L’unione artistica con Blikstad convince, e il tutto ribolle come lava che accende le speranze e ci conduce a un “sentire” oltre.

www.synnesanden.com

Synne Sanden & Øyvind Blikstad / Swallowed EP 2021

Etichetta | Nordic Records

Marcello Nitti © Geophonìe

06.04.2021- riproduzione riservata

Synne Sanden. Come un incanto fra sussurri e foglie

Photo : Linnea Syversen

30.01.2020
Live in Taranto, Italy.
Caffè Letterario “Cibo per la mente”.

Come un incanto fra sussurri e foglie. Forse il segreto è nella natura delle cose semplici. Se si accede alle sue profondità non sarà facile allontanarsi: è questo  ciò che accade quando ci si abbandona all’ascolto del nuovo lavoro di Synne Sanden.

L’artista norvegese raccoglie purezza e linfa vitale dalla natura per darle forme musicali sublimi e nello stesso momento è capace di infondere tenerezza e sollievo.

Photo Marcello Nitti © Geophonìe

Le canzoni dell’album “Imitation”, pubblicato nel 2019, sono un elisir di luminose ombre e di risplendenti sussurri di nostalgia. L’ascolto del suo intero lavoro conduce lungo un percorso interiore, è come seguire un destino di felice poesia dentro noi stessi, come riflettersi nel nostro sogno ideale da sempre conosciuto.

“Imitation”, CD/ LP, Sept. 2019 (Nordic Records Int.)

Synne Sanden, aiutata da Julie Falkevik all’organo, da Axel Skalstad alla batteria, da Lars Fremmerlid al basso e da Henrik Schmidt alla chitarra tessono con note e foglie che rincorrono farfalle un universo di dolce abbandono al contatto con la linfa delle stelle.

Il canto di Synne Sanden è il vertice della sua arte. Un incontro fra Lisa Gerrard e un coro di angeli. Non è facile scrivere melodie per voce che inseguono momenti di interiore esaltazione. Dal vivo la scena cambia e Synne, con l’aiuto di Julie Falkevik alle tastiere e del chitarrista Henrik Schmidt, dialoga con il pubblico e racconta con la sua voce poetica i sogni raccolti nella natura che la circonda.

Photo : Linnea Syversen

Il concerto di Taranto (30 gennaio 2020), al Caffè Letterario “Cibo per la mente”, vede Synne Sanden esprimersi con gioiosa calma e con giochi vocali intensi ed emozionanti: atmosfere che avrebbero sicuramente fatto breccia nell’intimo di Ivo Watts-Russell, echi a la “This Mortal Coil”, senza indulgere in somiglianze, ma piuttosto in uno spirituale cammino verso il punto luce più in alto. “Imitation” di Synne Sanden è sicuramente un capolavoro assoluto. La verità si afferma sempre.

Marcello Nitti © Geophonìe

 

 

 

 

Rokia Traorè, 6 settembre 2016, Reggio Emilia Campo Volo

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Rokia Traorè, 06.09.2016, Reggio Emilia (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Assistere a un concerto di Rokia Traorè è  esperienza ormai  inusuale, vista la misura di assuefazione raggiunta dal pubblico a sonorità finte, sintetiche e digitali. Come pure assai  inusuale, in uno spettacolo, è ritrovare  la sensazione di sprofondare nella contemplazione di una dote ormai sconosciuta alla maggioranza degli artisti oggi in circolazione: la naturalezza. E’ un concerto naturale, quello di Rokia Traorè: come la Terra, il Cielo, gli Alberi, i Sentimenti, l’Energia. E naturali sono le sonorità, saldamente africane, ove solo gli arrangiamenti rockeggianti  (sovrastrutture) ne scalfiscono il tessuto. Come naturale, liberatorio, esplosivo, è il ballo di lei sul palco, un concentrato di energia gioiosa, di energia “buona”, quella capace di annientare il male, il dolore, le debolezze,  le fragilità dell’animo umano. Rokia Traorè è un personaggio di un magnetismo unico al mondo, quelli che la conoscono lo sanno bene, e sono tutti d’accordo, unanimamente, nel riconoscerle la statura di artista internazionale di prima grandezza. Un gigante, una grande regina africana, chiara, limpida, lineare nelle sue idee, saggia. La sua musica è lo specchio esatto di questa saggezza. Una saggezza che implica conoscenza, studio, dedizione, sia alla musica che all’anima. Il concerto del Campovolo, dopo un pomeriggio di intensa pioggia che lo ha messo a rischio, è un concentrato di questi valori, musicali e di contenuti. Senza pose da diva, senza fronzoli inutili, lo spettacolo è tutta sostanza. Sostanza e bellezza. Gioia. Con momenti di crescendo travolgenti, ritmiche afro e accelerazioni fino a stati di ebbrezza, ma anche nenie africane ipnotiche che nell’ossessiva ripetizione, come un mantra, ti conquistano lentamente sino ad avere totalmente ragione di te.

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Rokia Traorè, 06.09.2016, Reggio Emilia (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Un rituale africano, quello della lenta, inesorabile vittoria schiacciante, che nella lucida combinazione di sonorità acustiche, disturbate solo da una splendida chitarra elettrica graffiante e distorta, trova la sua piena realizzazione. La voce di Rokia, poi, è incantevole, flautata, con quei vibrati che lei sprigiona con naturalezza, come fossero qualcosa di semplice, di immediato, e che invece sono il frutto di una lunga storia di disciplina vocale e di professionalità.

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Rokia Traorè, 06.09.2016, Reggio Emilia (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Lei, quella voce, la modula con variazioni improvvise, anche con prove di forza, e momenti di rabbiosa intensità come certi brani drammatici del suo penultimo disco “Beautiful Africa” del 2013, lavoro eccelso che lascia stupefatti, ma che Rokia ha utilizzato meno del previsto nel concerto di Reggio Emilia, privilegiando com’è giusto l’ultimo suo lavoro, “Nè So”, con cui prosegue il suo percorso di commistione di tradizione e modernità, tra sonorità ambient acustiche tipiche del Mali di Ali Farka Tourè e  ritmiche intermedie tra rock e funky che dal vecchio afrobeat di Fela Kuti giungono rielaborate fino ai giorni nostri: operazione, questa, che  come molti artisti afro-francesi stanno in questi anni stanno realizzando.

Negli ultimi dieci anni non ricordo un solo artista, nel quale mi sia imbattuto, che sia stato capace di trasmettermi pari emozioni. La band di supporto è affiatata, potente e intrisa di un unico e corposo sound, un tessuto sonoro in grado di produrre un effetto talvolta straniante, talaltra unificante e travolgente, capace di condurre il pubblico nei territori dell’interiorità come dell’euforia collettiva, fino a culminare nel ballo  smodato, libero, senza freni. La performance di Rokia, insomma, è di quelle che andrebbero portate sui massimi palcoscenici italiani, in una cornice diversa da quella offertale in una piovosa serata di festival di fine estate, ma che ieri sera lei, ugualmente,  ha subito saputo conquistare, senza alcuna fatica e già dal primo brano, a discapito del freddo  e del disagio climatico presto dimenticato da un pubblico facile preda delle note, in balìa di un canto difficile da dimenticare.

Giuseppe Basile © Geophonìe

JEFFERSON STARSHIP 12.09.2012, ROMA, XS LIVE

Cathy Richardson, l’ultima vocalist dei Jefferson Starship (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Trascinati dalla nuova lead singer, i Jefferson Starship di Paul Kantner e David Freiberg riescono a scrivere un ulteriore capitolo del loro quarantennale percorso artistico, tra rock, folk e psichedelia. Cronaca di una grande serata romana.

“Le pop star di oggi … fra un anno o due non ti ricorderai neppure il loro nome. Fra cinque anni saranno cancellate dalla storia”. A dirlo, nel 1997, fu un giovane e promettente figlio d’arte, Jacob Dylan. Così i giovani, da vent’anni a questa parte, descrivono se stessi. E ciò che colpisce, in effetti, è quanto l’affermazione sia vera. Lo si può constatare da tanti segnali emblematici: dalle copertine delle riviste musicali specializzate, ove all’immagine dei giovani viene sempre preferita quella dei vecchi musicisti, tanto sfatti (talvolta anche artisticamente) quanto ancora trainanti; dai dati di vendita dei cd, sempre saldamente ancorati alla musica degli anni 70 e 80, con uno scarto enorme rispetto alle produzioni contemporanee; dall’affluenza ai concerti.

Ovviamente le eccezioni si contano sempre, da ambo le parti. Come non mancano i giovani carismatici, così pure non mancano le tante vecchie glorie incapaci di difendere il proprio spazio artistico e la propria visibilità: la rendita di posizione dei vecchi, insomma, non è proprio un effetto automatico.

Certo è, comunque, che tra le mille storie di musica e di vecchi artisti è raro trovarne di quelle che testimoniano ancora una reale capacità di ricerca e di rinnovamento, perchè il momento in cui il vecchio grande artista tira i remi in barca e porta sul palco solo il mestiere, prima o poi inesorabilmente arriva.

Stupisce, allora, quando un gruppo di così lungo corso riesca ancora a trovare energie, motivazioni e capacità comunicative, senza peraltro dover accantonare il repertorio classico e rassicurante che la folla attende.

La ricerca e la reinterpretazione sono a volte l’effetto ineludibile del turn over che il passare del tempo impone. Pensionamenti, defezioni, avvicendamenti, producono necessariamente delle mutazioni. A volte, però, questo cercare per l’ennesima volta una via è ancora un’autentica ricerca artistica, piuttosto che una mera contingenza.

Cathy Richardson, David Freiberg e Jude Gold (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Di avvicendamenti i Jefferson Starship ne hanno visti in quantità, tanto da cristallizzarsi definitivamente come street band, come gruppo, cioè, che ha fatto della fase live tanto il proprio principale obiettivo, da concepire l’alternarsi dei componenti come un mero dettaglio.

Alle origini, come sappiamo, non fu così. La band, capitanata da Paul Kantner e Grace Slick, si esprimeva con una formazione imperniata su un nucleo abbastanza stabile, sebbene non mancassero mai, come in tutti i gruppi di cultura hippie, partecipazioni e ospiti importanti. Col passare degli anni, però, la filosofia dell’alternanza ha finito col prendere il sopravvento, tanto che nel loro ultimo disco del 2008, “Tree of Liberty”, la band si ripresentò al pubblico con una foto emblematica: “The Main Ten”, recitava la didascalia, i principali dieci. Un assemblaggio fotografico, che voleva testimoniare una storia scritta, suonata e cantata a più mani e più voci. Un ensemble.

Diane e Paul

Diana Mangano e Paul Kantner, 09.10.2005, Sausalito, Mexico (Corrado Cagalli © Geophonìe)

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Diana Mangano a Milano, 01.12.2006, Blue Note (Giuseppe Basile © Geophonìe)

A focalizzare l’attenzione dei fans e del pubblico, però, era l’avvicendamento nella posizione della lead singer ad essere sempre, e comprensibilmente, il più sentito. Dopo l’uscita di scena di Grace Slick la difficile eredità passò a Diana Mangano, che per oltre quindici anni ha retto il fronte del palco, sostituita sporadicamente da Darby Gould. Diana l’abbiamo vista in Italia svariate volte, l’ultima nel 2006 al Blue Note di Milano, nel corso di due serate nelle quali si percepì un momento di difficoltà e stanchezza della band.

Nel 2008, i Jefferson ci onorarono di un loro nuovo passaggio, ma questa volta senza la fantastica Diana, a cui il pubblico è sempre stato affezionato. La band questa volta sperimentava una nuova singer, di notevole curriculum nella scena folk rock del mercato interno americano, e di grande carattere: una certa Cathy Richardson, pressochè sconosciuta al pubblico italiano. Di lei si sapeva poco o nulla, si diceva che in America fosse la migliore interprete di Janis Joplin in circolazione, si parlava della sua vocalità robusta e potente e della sua indole molto rock.

Il concerto tenuto a L’Aquila (prima del terremoto) spiazzò i fans, ancora abituati alle dolcezze psichedeliche e alla pose hippie di Diana, ma lasciò intendere che la band forse stava per l’ennesima volta cercando un’ultima via di sopravvivenza, una soluzione per non restare intrappolata nello schema della band-revival per reduci.

Il disco “Tree of Liberty” risultò un lavoro decoroso, colto, fiero, con citazioni nobili del folk americano e la giusta dose di sonorità tipiche della band. Non si sapeva, però, quale direzione avrebbe davvero potuto assumere la nave dei Jefferson per il prosieguo. Abbiamo così dovuto attendere i concerti di Catanzaro e Roma, (9 e 12 ottobre 2012) per scoprire come questa formazione abbia saputo evolversi.

Cathy Richardson ha preso in mano le redini della band, come forse neppure a Diana Mangano riusciva, e ha ri-portato il gruppo su ritmi e composizioni intense e a tinte forti. Di psichedelia praticamente non c’è traccia, mentre il rock classico della band viene invece ripescato e riproposto senza esitazioni.

Cathy e Paul, 12.09.2012, Roma (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Cathy è una vigorosa interprete, ma è anche una fervida autrice, qualità che ha voluto rendere nota al pubblico italiano presentando nel corso della performance il disco d’esordio (“The Other Side”) della sua band collaterale, The Macrodots, eseguendone un brano (“If I Could”). I linguaggi sonori, ovviamente, sono tutt’altra cosa rispetto alla band di Paul Kantner. Si tratta di un sound tipicamente anni 2000, caratterizzato dalla chitarra di Jude Gold, giovane musicista che milita con Cathy in questa giovane formazione, ma che è anche sul palco dei Jefferson, come chitarra solista.

Slick

Slick Aguilar, 19.11.2006 Amsterdam, Melkweg (Corrado Cagalli © Geophonìe)

E’ la marcia in più che forse mancava al gruppo di Paul Kantner, e che sostituisce il veterano Slick Aguilar, per anni artefice delle sonorità elettriche dei Jefferson, sempre presente in tutti i loro tour sin dal 1992.

Jude Gold e Cathy insieme tirano da matti: il concerto romano è di sorprendente potenza, sonora e vocale, e su questa caratteristica è costruita la setlist.
La “Somebody to Love” degli Airplane è addirittura il primo brano, come a volersi subito scrollare di dosso il macigno, ma che naturalmente ben dispone il pubblico.
Segue “Fresh Air”, parallelo omaggio ai Quicksilver Messanger Service, ovvero l’altra band che contribuì alla nascita dei Jefferson Starship, nel lontano 1970. David Freiberg la esegue perfettamente, con voce forte e interpretazione sicura.
Per quanto è breve, la successiva invocazione di “Sunrise” giunge come una mera sensazione di psichedelia, un omaggio al tema filosofico portante della storia del gruppo, ma non ti lascia il tempo di cullarti nelle sue suggestioni hippie: la serata, infatti, deve scorrere su un altro registro. La band infatti esegue di seguito “Have You Seen The Saucers?” e “Find Your Way Back”, due brani non celebri e poco sfruttati da Kantner (il primo, composto nel 1970, venne poi inserito in una raccolta di opere minori degli Airplane pubblicata solo nel 1974, “Early Flight”; il secondo, invece, è un pezzo ripescato da “Modern Times”, lavoro che i Jefferson Starship pubblicarono, senza fortuna, nel 1981). Queste due esecuzioni risultano essere un segno di forza del concerto romano, perché stanno a dimostrare che se una band suona ad alti livelli, anche i lavori minori possono trovare un momento di gloria inattesa. Entrambi i pezzi sono una riscoperta, e l’interpretazione dell’intero gruppo li rigenera e valorizza.

Cathy Richardson, 12.09.2012, Roma (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Ma è tempo ormai di sfoderare la sequela mozzafiato di hits, a furor di popolo, e di brillanti vibrazioni rock. “When The Heart Moves Again” (pietra miliare d’apertura dell’inarrivabile “Bark” del 1971) è come sempre un inno, a cui seguono “Get Together”, “Miracles”, “Count On Me”, una dopo l’altra. Si arriva così a “Wooden Ships”, ovvero alla pura leggenda, al punto compositivo più alto di Kantner/Crosby, corale, calda, con il duo vocale Kantner-Richardson convinto e concentratissimo.

La band ci crede, dimostra affiatamento, solidità, voglia di inondare il pubblico di emozioni. A sostenere il crescendo ritmico c’è Prairie Prince, storico batterista della band che negli ultimi anni si era allontanato dal gruppo per seguire altri progetti, ma che per una manciata di date di questo tour ricompare, proprio in Italia. Era (e forse è ancora, chissà) il compagno di vita di Diana Mangano, di cui invece non si ha quasi più notizia dal momento della sua uscita dal gruppo, fatta eccezione per qualche sua apparizione negli States con altri musicisti. Alle tastiere, invece, inamovibile, come nelle precedenti tournee italiane del 2005 e 2006, c’è Chris Smith, questo bravo ragazzo dalla faccia buona che da anni riesce a sostenere ritmicamente la band accollandosi anche le parti di basso.

David

David Freiberg, 12.09.2012, Roma (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Dopo l’esecuzione di Wooden Ships, accolta dagli applausi, c’è spazio per due sorprese. David Freiberg intona da solo, voce e chitarra, “Harp Tree Lament”, ovvero il suo più grande capolavoro, una delle canzoni più belle del mondo. L’interpretazione è commovente perché ti fa comprendere quanto possa essere grande il cuore di un uomo, anche in età avanzata. E’ questa oggi, purtroppo, la condizione del grande David, un vecchio hippie che ha vissuto nove vite e che ha ancora la forza di presentarti una canzone così intensa dimostrandoti quanto lui stesso la ami. Certo, la versione originale contenuta su “Baron von Tollbooth & the Chrome Nun” del 1973 non è obiettivamente riproducibile (lì siamo davvero fra le stelle), ma questa versione acustica è una celebrazione (giusta), un omaggio dovuto a una composizione che vive di vita propria, di quelle che quando te ne innamori non la lasci più.

Subito dopo tocca a Cathy diversificare il concerto presentando “If I Could”, tratto dal disco realizzato con The Macrodots (decisamente un bel lavoro, robusto e godibile al tempo stesso, attuale e originale: alla fine del concerto lei stessa riceve il pubblico all’uscita dal XS Live – il locale che ospita i Jefferson e che loro inaugurano – e ne vende una gran quantità di copie).

PAUL KANTNER

Paul Kantner, 12.09.2012, Roma (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Il concerto quindi entra nella sua fase finale, rock a tutto spiano, con un’altra raffica di brani memorabili. Si riparte con “Ride The Tiger”, e “Fast Buck Freddie”, con cui il gruppo dimostra di voler porre l’accento sul suo repertorio più rockettaro, cosa che invece non si riscontrò sempre nel corso delle loro ultime esibizioni italiane. Kantner pesca infatti a piene mani da “Dragonfly” e “Red Octopus” del 1974 e 1975, scaricando i suoi riff tipici degli Starship dell’età di mezzo (quella successiva agli esordi psichedelici di “Blows Against The Empire”, e precedente alla fase di fine anni ‘70 e primi ’80 durante la quale la band s’incamminò verso contaminazioni di ambiente pop americano ed esperimenti commerciali). Si prosegue con “Jane”, fortunatissimo brano del 1979 (tratto da “Freedom at Point Zero”): tutti brani, questi, in cui Cathy sfodera una forza interpretativa da leone e viene sostenuta da un Jude Gold straordinario che davvero fa la differenza, brillantissimo, di grande tecnica chitarristica e lucentezza di suoni, brillante in assoli straripanti che ne catalizzano la presenza sul palco.

E’ il momento di affrontare la fase finale con un’ultima marcia trionfale di successi, pura storia della musica. “Crown of Creation”, “Hyperdrive”, “The Ballad Of You And Me & Pooneil”, sino a “White Rabbit” (con una Cathy ormai alle stelle, ma sempre lucida e carismatica nel condurre la performance), e quindi al delirio finale di “Volunteers”.

L’XS Live sulla via Ostiense di Roma vive un momento di gloria che mai dimenticherà, un pubblico maturo e avanti negli anni si abbandona all’ebbrezza della gioia collettiva, mentre Paul Kantner chiude, come quasi sempre è solito fare, con “The Other Side Of This Life”, ora siamo davvero dall’altra parte della nostra stessa vita.

Non ci sono parole per celebrare i Jefferson.

Autentici Eroi. Serata epica.

Giuseppe Basile © Geophonìe
(Riproduzione Riservata)

Ultravox. La Reunion al Vox di Nonantola (14/04/2010 Unica data italiana)

Era l’ultima tra le grandi band del decennio ’80 a resistere alle tentazioni nostalgiche e autocelebrative di questi ultimi anni in cui, tra revival, commemorazioni e ripescaggi, si è potuta rivedere l’intera scena musicale degli anni ’80. Di quella scena gli Ultravox furono senz’altro fra i più apprezzati interpreti e si attendeva da tempo, infatti, una loro ricomparsa nei circuiti della musica dal vivo.

Che tale probabilità fosse concreta era già chiaro dallo scorso anno, quando la band di Midge Ure si impegnò in un breve tour limitato al solo territorio britannico, e sebbene non circolassero ancora voci di una reunion in terra italiana si riteneva attendibile l’ipotesi di un tour europeo nel 2010. Il colpaccio l’ha messo ora a segno il Vox Club di Nonantola, tempio della musica emiliana, che si è assicurato l’unica data programmata per l’Italia, il 14 aprile.

Il concerto, di altissimo livello tecnico, costituirà un evento di grande valore artistico, ma anche di portata storica.

Gli Ultravox, infatti, hanno calcato i palchi italiani in rare occasioni e sono assenti (nella loro formazione originaria) dal lontano 1984. Nel territorio emiliano è rimasto vivo il ricordo di una loro storica esibizione, quella del 6 settembre 1984 a Bologna, in occasione del loro più celebre tour europeo che li consacrò definitivamente all’attenzione del grande pubblico (tre mesi dopo vedemmo Midge Ure dirigere a Londra il noto gruppo “Band Aid”, la formazione che raccoglieva i più grandi artisti britannici del momento per eseguire “Do They Know it’s Christmas”, brano simbolo del famoso Live Aid del 1985 durante il quale lo stesso Midge Ure si esibì sui palchi di Wembley e di Filadelfia riscuotendo un successo planetario).

Ma dalle segrete stanze dei collezionisti emergono oggi rare tracce di altri passaggi in terra emiliana, anche precedenti a quell’acclamato concerto bolognese. Sul web si rinviene traccia di una loro esibizione il 2 novembre 1981 al Palasport di Rimini, forse il loro esordio assoluto in terra italiana. Successivamente, nel dicembre 1981, la band si esibì, secondo alcuni il 2 al Palalido di Milano (ma il sito di Midge Ure, www.midgeure.com, nella sezione “Gigografy”, indica la data del 6 dicembre), il 3 al Palaeur di Roma, il 4 fu nuovamente sul palco del Palasport di Bologna e il 5 al Teatro Tenda di Torino (la nostra Associazione ha reperito, infatti, materiali audio amatoriali che testimoniano alcune di queste performance).

Del Tour denominato “Quartet” del successivo 1982 non si hanno notizie circa un passaggio in italia. Il successo, in ogni caso, è quello che arriva nel 1984, col Tour europeo che partì da Taranto il 2 settembre (prima assoluta europea, al Tursport Club) e toccò altre città italiane, (Nettuno, Stadio Comunale il 4 settembre, ancora Bologna e poi Genova, rispettivamente il 6 e 7 settembre).

Gli Ultravox si rividero in seguito in occasione del Tour che prese il nome di “U-Vox”, nel 1986: delle date italiane si rinviene traccia nel sito di Midge Ure, che indica numerosi concerti italiani: “17.11 Modena Palasport, 18.11 Torino Palasport, 19.11 Firenze Teatro Tenda, 20.11 Roma Teatro Tenda, 21.11 Napoli Teatro Tenda, 23.11 Taranto Tour Sport – (ndr: data errata, il concerto di Taranto fu solo quello del 2 settembre 1984, ampiamente documentato nel nostro libro “80, New Sound, New Wave”, Geophonìe Ed., 2007) – 24.11 Chieti Palasport, 25.11. Padova Palasport, 26.11 Milano Rolling Stone, 27.11 Gorizia Palasport”.

Il 1986 fu l’anno dello scioglimento della band che perse il batterista elettronico Warren Cann, a seguito (pare) di contrasti con Midge Ure. ll gruppo sostituì Cann con Mark Brzezicki dei Big Country, col quale terminò le registrazioni dell’album “U-Vox”, ma lo scioglimento era alle porte (e già dall’anno precedente, il 1985, infatti si registravano le prime uscite discografiche soliste dei componenti della band, come “The Gift” di Midge Ure, e le collaborazioni di Bill Currie, violinista e anima del gruppo, con altri artisti).

La band, dunque, non potè reggere alla scissione tra Ure e Currie il quale, poi, solo nel 1993, detenendo i diritti del marchio, provò a riesumare il nome Ultravox unendosi con il cantante Marcus O’Higgins. Il tentativo andò avanti fino al 2003 con tre album di scarso successo.

Il 6 novembre 2008, finalmente, è stata annunciata attraverso il sito ufficiale della band, una reunion dei 4 membri originari, (Currie, Cann, Cross e Ure), con il tour britannico nel 2009.

Negli anni di assenza della band dalle scene, è capitato più volte di vedere i singoli artisti in giro per l’Italia, anche nell’area padana. Nel gennaio 1998 Midge Ure solista fece un breve Tour italiano (il 16 al Rolling Stone di Milano, il 17 all’Air Terminal di Roma, il 18 al Teatro Medica di Bologna e il 20 al Big Club di Torino). Il 21 febbraio, sempre nel 1998, lo rivedemmo al Teatro Tenda di Firenze (erano gli anni di “Breathe”, il suo fortunatissimo singolo che fu utilizzato per una pubblicità internazionale degli orologi Swatch). Dopo un paio d’anni, il 25.11.2000 Midge fece nuovamente tappa a Milano per un’esibizione all’Alcatraz.

Il primo leader degli Ultravox, John Foxx, anch’egli molto amato in Italia, lo vedemmo in versione solista il 13 aprile 2007 alla Pandurera (una struttura polifunzionale tra Cento e Ferrara) e il 18 ottobre 2008 a Marghera (sul palco della Fucina Controvento). In quegli anni Foxx presentava al pubblico gli album “Tiny Colour Movies” e “Impossible”, lavori realizzati in quel periodo.

Gli Ultravox sono ancor oggi considerati dei creatori di particolare originalità, tra i pochissimi della scena new wave che riuscirono a fondere le sonorità robotiche e tecnologiche dei primi ’80 con quella vena melodica e romantica che le nevrosi ritmiche del punk e l’elettronica pionieristica avevano offuscato nell’Inghilterra di fine ’70. Il loro sound, futurista e decadente, restituì alla nuova ondata di artisti britannici un approccio incentrato sulla ricerca della composizione, prima che della pura sonorità.

(Giuseppe Basile per Gazzetta di Modena, 25.01.2010).

vedi anche in Geophonìe – Recensioni: Ultravox – Cronaca del concerto del 14.04.2010, di Giuseppe Basile per Gazzetta di Modena 15.04.2010.

PAVEMENT 25.05.2010, Bologna, Estragon

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Pavement, 25.05.2010, Bologna (Giuseppe Basile © Geophonìe)

“Rivelare l’arte e celare l’artista è il fine dell’arte”, diceva Oscar Wilde. Regola osservata in tante forme di espressione artistica, ma disattesa nella cultura rock, in cui, chissà perché, si pretende una sorta di aderenza dell’autore alla sua storia e la credibilità dell’artista, infatti, cresce quanto più egli riesca a identificarsi con ciò che interpreta.

“Non è così in letteratura e nemmeno nel cinema” – diceva Randy Newman (JAM n.52, ott.2008, p.43) – Non è necessario che Cormac McCarthy somigli allo sceriffo Ed Tom Bell, né pensiamo che dietro a Jack Torrance ci siano necessariamente le idee e i sentimenti di Stephen King o Stanley Kubrick. Eppure esigiamo che Bruce Springsteen sia nel profondo dell’anima uno di noi: la nostra capacità di credere nella sua musica deriva in parte dalla sensazione che egli sia la canzone che canta. Ci fidiamo dell’uomo perché ci fidiamo delle sue canzoni”.

Bel problema. Se è questo, allora, il meccanismo comunicativo che si instaura tra artista e pubblico, come deve porsi un artista tra i quaranta e i cinquant’anni ogni qual volta gli sia richiesto di interpretare un brano dei suoi vent’anni nel quale non si riconosce più?

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Stephen Malkmus, Pavement (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Salgono sul palco dell’Estragon i PAVEMENT, acclamata band anni ’90 che trovò un lunsinghiero successo internazionale per aver saputo esprimere, in modo davvero realistico, sincero e autentico, le smanie sonoro-mentali dei ventenni di quel decennio. Portavano sul palco, ma esprimevano anche nei testi e nelle sonorità, un atteggiamento mentale e culturale, tipico dei ragazzi di quel periodo. E lo facevano con una trascinante ed encomiabile genuinità artistica. Scanzonati, ciondolanti, caotici come il popolo grunge (da cui comunque si differenziavano), esprimevano una visione trasversale e originalissima nella scena musicale dei ‘90. Le melodie ebeti si mescolavano alle ballate, gli avventurismi chiassoni e cacofonici si susseguivano a momenti di intimismo e di splendide profondità compositive. Le interpretazioni erano cariche di energia che sprizzava da tutti i pori, di rabbia giovanile e di quell’impeto tipico dei ragazzi desiderosi di  dispensare adrenalina e cuore, di esternare rabbia e dolore, di accaparrarsi amore e piacere, ricercando in ogni possibile direzione la strada per soddisfare tutte queste interiori urgenze. Un vagare senza meta, alla fine incocludente, era la loro musica:  un manifesto artistico assolutamente evoluto nell’esprimere quella fase di crescita, ma per questo difficile, oggi, da rappresentare, col senno di un’altra età.

“Malkmus è ancora identico allo spilungone che sbatacchiava qua e là la chitarra  … Stessi giochi  scomposti, con la sei corde e la relativa tracolla, stesso atteggiamento scazzato” – commenta Davide Poliani su rockol  (http://www.rockol.it/news-143816/Pavement—Estragon-Bologna-25-05-10) – “… Certo, Spiral Stairs si è per lo meno irrobustito, e quella coppola incomprensibile che ormai tiene sempre in testa potrebbe nascondere una calvizie incipiente, ma sono solo dettagli. I Pavement sanno che è un reunion tour …..e i pezzi forti ci sono tutti ….. Ma stanno tutti al gioco, perché quando un gruppo così si riunisce, la ragione che spinge la gente a mettersi in macchina e farsi qualche centinaio di chilometri è vedere la magia ricrearsi. E i Pavement, la magia, hanno saputo ricrearla alla perfezione”.

PAVEMENT, BOLOGNA 25.05.2010, ESTRAGON 021

Pavement, 25.05.2010, Bologna (Giuseppe Basile © Geophonìe)

(Giuseppe Basile © Geophonìe)

Vero.

Sottoscrivo parola per parola il commento di questo spettatore-fan-giornalista. I Pavement hanno suonato benissimo e tenuto il palco con grandissima vitalità, voglia di esserci, energia. Hanno scatenato quel disordine (anche scenico) col loro alternarsi confusamente, tipico dei loro spettacoli, contagiando il pubblico. Bravissimi, veramente. Il problema, però, è che è “revival”. Anche dieci anni possono diventare un tempo lungo per come siamo abituati, ormai, a veder susseguirsi mode e costumi. Il mondo e i pensieri cambiano rapidamente, e anche noi, già dopo dieci anni, non siamo più gli stessi. “Stiamo al gioco”, dunque, come dice il commentatore Davide Poliani. E godiamoci pure la “magia” (artificiosamente ricreata, con professionalità e mestiere, per carità … ma  anche, se vogliamo, con qualche trovata scenica un po’ abusata: penso allo strip di scarpe e calzini di Spiral, più rievocativo che necessario, e a certe pose ormai stantie, un clichè: l’originalità, del resto, dura lo spazio di un mattino. Poi diventa autocelebrazione). La magia fa sempre bene, ma l’autenticità,  “l’aderenza dell’autore alla sua storia” è normale che non possa percepirsi più. Abbiamo quarant’anni noi, e ce li hanno anche loro. Ieri era tutto cuore, oggi è un “come eravamo”, è “interpretazione”, anche se di tutto rispetto. Ma coi tempi che corrono, con le magre emozioni che la musica attuale ci sta dispensando, va bene anche così.

Setlist:

Gold Soundz / Grounded / Ell Ess Two / Kennel District / Cut Your Hair / Father To A Sister Of Thought / The Hexx / Zurich Is Stained / In The Mouth A Desert / Two States / Silent Kid / Unfair / Stop Breathin’ / Rattled By The Rush / Here / Perfume-V / Shady Lane / Debris Slide / We Dance / Trigger Cut / Spit On A Stranger / Summer Babe / Fin // Date With IKEA / Stereo / No Life Singed Her /// Range Life

Giuseppe Basile © Geophonìe

ULTRAVOX 14.04.2010, Nonantola, Vox Club

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Midge Ure, Ultravox (Armando De Leonardo)

Ieri sera a Nonantola la band di Midge Ure e soci ha incantato il pubblico con un tripudio di elettro-pop e romanticismi elettronici. Il Vox era gremito e il pubblico non ha risparmiato gli applausi. Se nel 2010 si assiste ancora a un concerto degli Ultravox non si può che uscirne rinfrancati: rivederli oggi, infatti, a vent’anni dall’apice del loro successo, è un segno che le ombre di quel futuro buio dominato dalla tecnologia, che la band descriveva negli anni ’80,  sono state scacciate.

Era il trend delle loro prime composizioni, ma oggi la band lo ripropone con sorrisi rassicuranti e con la giusta allegria per essere ancora qui, amata e acclamata.

Ieri sera gli Ultravox hanno esordito con una prima serie di brani più commerciale e conosciuta, “New Europeans”, “Passing Strangers”, “We Stand Alone”, ma il concerto è decollato con “Mr.X”, sinfonia elettronica fredda del 1980 che ha strappato i primi calorosi applausi. Un momento di grande emozione.

Generazione inquietante, quella degli artisti degli anni ’80. Tutti, loro compresi, stregati dall’elettronica e dalle ritmiche  robotiche, teorizzavano un mondo opprimente in cui lo spazio vitale dell’Uomo sarebbe sfociato in una deriva individualista. Futuristi e pessimisti. Ma mentre David Byrne profetizzava un futuro nevrotico, e i Devo invece su quello stesso futuro ironizzavano (sostenendo che l’avanzata della tecnologia avrebbe condotto al progressivo istupidimento della razza umana), gli Ultravox si soffermavano sulle malinconie di quella condizione, sottolineando quanto fosse necessaria e ineludibile, anche per l’Uomo Tecnologico, la linfa dei sentimenti. Con questa vena malinconica la band, inquadrata nel genere “new romantic”, trovò la chiave del suo successo riconfermato ieri sera.

Gli Ultravox, 14.04.2010, al Vox di Nonantola (Armando De Leonardo)

Al Vox gli spettatori, prevalentemente over 40, sono di quelli abituati a percorrere lo stivale in lungo e in largo per i concerti. “Veniamo dalla Puglia in aereo”, dice un gruppo di appassionati. Comunità umane reali, non virtuali, composte da gente ancora desiderosa di vivere emozioni fisiche sotto il palco, piuttosto che su un video o nei commenti superficiali di qualche social network.

Il concerto è andato avanti con la prevista sequela di hit mozzafiato, tra atmosfere colte e vampate di puro rock. I manifesti sonori della band, come “Thin Wall”, le composizioni più “epiche” come “Hymn” e “Dancing With Tears In My Eyes”, si sono susseguite e mescolate in un’atmosfera ritmica molto omogenea e costante. E’ il modo di concepire una reunion, con la carrellata dei successi che tutti pretendono. A rendere unico e forse anche speciale l’evento, però, sarebbe forse bastata anche una sola interpretazione differente, una variante nelle esecuzioni, o magari un inedito. Dopo vent’anni, musicisti di questa portata è strano che non abbiano voglia di uscire almeno per un minuto dal clichè sonoro e scenico che li cristallizza. Nessun dubbio sul fatto che questo sia il loro modo naturale di esprimersi. I tecnologici non sono degli improvvisatori (basti ascoltare il disco live pubblicato nel 2010, “Return To Eden”, per risentire, in modo assolutamente pedissequo, lo show del Vox, identico a quelli delle altre date del Tour europeo), ma almeno l’anima degli sperimentatori, anche con pochi accenni, avrebbe forse impreziosito un repertorio che per quanto amato, resta datato. Gli anni ’80 sono finiti da un pezzo, e dopo migliaia di ascolti, l’assuefazione a certe sonorità potrà sortire l’effetto nostalgia, ma non anche l’effetto sorpresa, che artisti di questo calibro possono sempre suscitare, se solo volessero.

La serata, che ha trovato diversi highlights – nell’esecuzione di “All Stood Still” scatenando il ballo robotico collettivo, o in quella di “Vienna” cantata benissimo da Midge Ure – si è chiusa con la pirotecnica e festosa “Sleep Walk” e le percussioni immancabili di “The Voice”, a degna conclusione di una performance prevedibile ma  di assoluto  rispetto,  senz’altro da ricordare.

Setlist: 01.  New Europeans 02.  Passing Strangers 03.  We Stand Alone 04.  Mr.X 05.  Vision’s in Blue 06.  Thin Wall 07.  I Remember (Death In Afternoon) 08.  Astradyne 09.  Rage in Eden 10.  Lament 11.  Hymn 12.  One Small Day  13.  All Stood Still 14.  White China 15.  Vienna  16.  Reap The Wild Wind 17.  Dancing With Tears In My Heart  18.  Love’s Great Adventure 19.  Sleep Walk 20.  The Voice

Giuseppe Basile © Geophonìe

Gazzetta di Modena 15.04.2010 (Recensione di Giuseppe Basile)

Gazzetta di Modena 25.01.2010 (Recensione Giuseppe Basile)

 

 

 

Comicoperando. Tributo a Robert Wyatt 06.03.2010, Modena, Teatro Comunale

E’ difficile spiegare le intenzioni di un gruppo ipercolto di musicisti riunitosi a sorpresa per esprimere l’arte di un illustre collega, altrettanto ipercolto, ma inimitabile, e  perciò difficilmente interpretabile.

“Comicoperando si propone di rivisitare e reinventare il repertorio di Wyatt, pur rimanendo radicato alla tormentata inventiva del compositore e del suo spirito iconoclasta”, si legge nella nota del catalogo illustrativo della rassegna “L’Altro Suono”, al Teatro Comunale di Modena.  “Il gruppo crea una diversità di stili e registri e presenta brani fondamentali, dagli esordi con i Soft Machine fino al più recente “sperimentalismo popolare” di Comicopera (2007), coprendo più di quarant’anni di storia musicale”.

Tributo a Robert Wyatt 037In realtà, lo stupefacente ensamble di musicisti sul palco, un nonetto di livello senza eguali, sembra invece vagare tra una voglia di libera interpretazione, espressa però con indecisione e titubanza, e un desiderio di restare nell’ambito, più modesto, del “tributo” al grande maestro e amico.

In certi momenti lo spettacolo decolla e appare intellettualmente onesto, anche se non brillante. In altri, la reunion degli amici di Wyatt volta a rieseguire i brani celebri, prende il sopravvento e diventa esercizio di stile, restando nei binari di una piatta normalità.

Difficile l’approccio a Robert Wyatt, già solo per sostituire, nell’esecuzione di qualsiasi sua composizione, la sua voce, unica al mondo, inconfondibile, inimitabile persino per Richard Sinclair, che per sue doti naturali al timbro di Wyatt  si è sempre avvicinato sino a mettere in difficoltà l’appassionato (nell’ascolto dei dischi anni 70 dei Caravan e dei Soft Machine si tendeva a scambiarli). La voce di Richard Sinclair poteva costituire l’alternativa giusta, forse l’unica possibile, per un’esecuzione degna di un tributo ai massimi livelli: ma Richard in tutto il concerto ha cantato poco, e quando lo ha fatto è parso freddo e ordinario, talvolta quasi pedissequo nel tentativo di cantare Wyatt senza rischiare.

Il rischio poteva risiedere nella scelta di discostarsi fortemente dall’interpretazione vocale originale  – esprimendo quindi una volontà sperimentale e molto “artistica” – e spingersi sino a stravolgerla; oppure, il rischio Richard avrebbe potuto decidere di correrlo interpretando vocalmente Wyatt nella più totale aderenza al modello, ma a quel punto, per farlo, doveva tirar fuori tutta l’anima e il pathos, l’intensità che Wyatt ha sempre profuso nel suo cantare: e questo rischio Richard è sembrato non volerlo o saperlo sostenere.

07bisE’ andata peggio a Dagmar Krause, altra grandissima interprete dell’ambiente wyattiano e fautrice delle sperimentazioni più estreme del Canterbury Sound con i suoi Henry Cow degli anni ’70. La Krause, già in naturale difficoltà per dover percorrere la strada inedita (e impervia) di un’interpretazione al femminile – tutta da trovare – per una composizione e una vocalità originariamente maschile, sembra aver incontrato una difficoltà ulteriore, costituita dai suoi limiti odierni: il suo cantato non rappresentava Wyatt, né lo rielaborava. E’ apparsa in difficoltà interpretativa nel brano “Maryan”, immensa armonia wyattiana che tutti hanno pensato bene di cantare coralmente, snaturando però quella vocalità esile e fragile che caratterizza la composizione.

Ma diversi brani celebri hanno mostrato una difficoltà interpretativa del gruppo e un’indecisione artistica. In “God Song”, in “Sea Song”, in “Calyx” è mancata l’idea risolutiva, o l’intensità, la drammaticità che solo Robert Wyatt sa infondere.

La più coriacea è apparsa Annie Whitehead al trombone, ma più per sue doti istrioniche e caratteriali che per un’effettiva sostanza sonora. Annie è stata la più brillante per presenza scenica e spirito di aggregazione, ma la sua carica suggestiva non ha del tutto colmato la sensazione latente di assistere a un progetto artisticamente lacunoso, o forse ancora in fase di sperimentazione e rodaggio.

Tributo a Robert Wyatt 041Gigantesco, invece, come sempre, è apparso Chris Cutler, il batterista degli stessi Henry Cow, dei Pere Ubu, dei Brainville 3 (con Daevid Allen e il compianto Hugh Hopper). Chris Cutler, sperimentatore puro capace di superare ogni limite concettuale, riesce a oscurare i propri comprimari anche quando non si avventura in avventure sonore estreme e funamboliche. E’ strepitoso anche quando riesce a tenere la sua batteria in riga, senza lanciarla in progressioni free inconcepibili. Le sue sonorità, a sostegno dell’intero ensamble, equilibrate e calibratissime, sono state, come sempre, celestiali, pur senza rinunciare alle ritmiche originali, a quella ricerca che fa di lui un pittore della batteria: i suoi tessuti ritmici sono affreschi, saggi di improvvisazione, di disciplina e di visioni interpretative trasversali e imprevedibili. Un genio assoluto.

Il concerto, dal punto di vista tecnico, ovviamente non poteva certo deludere. Perfetti son stati Cristiano Calcagnile alle percussioni e Gilad Atzmon ai fiati, brillante tanto nei duetti con la Whitehead  che nelle parti soliste. Ma anche Alex Maguire alle tastiere non poteva non costituire un elemento centrale per le sonorità espresse, decisivo nelle sue basi per caratterizzare la composizione wyattiana.

Sono mancati, insomma, un po’ di coraggio interpretativo e di interiorità a questi dotatissimi eroi di un’era musicale che si allontana sempre più, rispetto alla quale, forse, gli stessi artisti avvertono, per l’inesorabile avanzare dell’età, una distanza d’animo e una mutata disposizione artistica  produttiva di un approccio fondato su una diversa sensibilità.

Setlist: 1.Pataphysical Introduction, 2.September The Ninth, 3.Little Red Robin Hood Hit The Road, 4.Just As You Are, 5.Calyx,  6.Memories,  7.Alifib, 8.God Song, 9.Maryan, 10.Alliance, 11.Sea Song, 12.Dondestan 13.O Caroline 14.Forest

Giuseppe Basile © Geophonìe

Simple Minds 03.07.2009, Milano, Arena Civica

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Jim Kerr, Simple Minds, 03.07.2009, Milano, Arena Civica (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Dobbiamo fare uno sforzo: essere obiettivi. E per noi di Geophonìe, trattandosi dei Simple Minds, la cosa risulta difficile. Non possiamo negare un affetto profondo verso Jim Kerr e soci, lo  nutriamo da anni: precisamente da quella sera del 7 luglio 1983, quando la band approdò a Taranto, la nostra città, e ci regalò una serata che è rimasta scolpita nel ricordo collettivo, un pezzo di storia della musica a Taranto, ma anche un pezzo della “nostra” storia personale. Se oggi questa piccola associazione culturale esiste lo dobbiamo un po’ anche a loro, a Jim e alla band.

Jim Kerr col Corriere web

Jim Kerr, Simple Minds, Taranto, 07.07.1983 (Marcello Nitti © Geophonìe)

Fummo talmente felici di quell’evento che in seguito abbiamo fatto di tutto per documentarlo, conservarne ogni traccia utile e mantenerne vivo il ricordo. Fu un momento di gloria, anche personale, per chi lo organizzò.

Ma inseguire gli eventi irripetibili è pericoloso. Ci abbiamo provato tante altre volte a ricreare quell’atmosfera, quel trasporto collettivo, abbiamo cercato di sostenere quella passione, ma un momento come quello non si è più ripetuto. Anche il nostro libro, “80 NEW SOUND, NEW WAVE” , in fondo era finalizzato a questo. Lo abbiamo regalato a Jim Kerr a Milano, dopo il concerto, lasciandolo speranzosi nelle mani di un addetto alla sicurezza ( … l’avrà ricevuto? Chissà! Ci piacerebbe saperlo). Volevamo che lui conoscesse la nostra storia, che potesse scoprire come di quel concerto si sia parlato per anni, tanto da arrivare a scrivere un libro per spiegare “che-cosa-accadeva-in-una-città-di-provincia-quando-negli-anni-80-passavano-i-Simple Minds” (… ma anche gli Ultravox, i Bauhaus, i Sound e Siouxsie, i New Order e gli altri …).

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Charles Burchill, Simple Minds, 03.07.2009, Milano, Arena Civica (Giuseppe Basile © Geophonìe)

E’ pericoloso, talvolta, coltivare l’illusione di poter rivivere antiche emozioni in una nuova realtà, quella di oggi, in cui le sonorità dei Simple Minds non possono che risultarci  scontate ed è inevitabile che non ci sorprendano più. In questi casi, quando si va al concerto con lo spirito dei fans,  persino il critico musicale freddo e imparziale, forse, finisce col risultare più indulgente. I fans non sono obiettivi, i fans pretendono. Di declino, di tempo che passa, loro non vogliono sentir parlare. Sono consapevoli che una certa sonorità, un certo ‘stile’ oggi  non può essere altro che revival, ma confidano che la propria band riuscirà a far dimenticare tutto questo. Il critico musicale, in fondo, direbbe che la band ha superato brillantemente questo ennesimo esame. Anche l’ultimo disco viene apprezzato dalla stampa specializzata e la folla, del resto,  è uscita dall’Arena Civica felice e soddisfatta. Ma i fans del gruppo, quelli che hanno atteso molti anni per vederlo, pur nella gioia collettiva, commentano la serata in modo vario.

Un ragazzo dice: “Li avevo visti a Roma negli anni 80, dopo vent’anni eseguono tutti i brani  alla stessa maniera”. Lo dice con rammarico.
“Se un artista si ripresenta su un palco dopo diversi anni, immagino che lo faccia perché ha voglia di dire qualcosa”, commenta una signora non giovanissima. Nessuna sorpresa, insomma. Sembra che i Simple Minds vogliano a tutti i costi assomigliare a sé stessi, senza concessioni ad alcun tipo di sperimentazione, né sonora, né compositiva. Il concerto è un recital. Si parte con “Waterfront”, con “I Travel”, si prosegue con Someone, Somewhere in Summertime”, “Glittering Prize”, “Promised You a Miracle”, “New Gold Dream”, “See The Light”, intervallate da poche novità, quelle dell’ultimo disco, un lavoro anch’esso molto allineato allo stile della band. “Moscow Underground”, il brano di punta di questo nuovo “Graffiti Soul”, assomiglia moltissimo alla fortunata “Home” del loro disco precedente.

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Jim Kerr, Simple Minds, 03.07.2009 Milano Arena Civica (Giuseppe Basile © Geophonìe)

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Simple MInds, 03.07.2009, Milano, Arena Civica (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Ma un po’ tutta la resa dei brani, anche nella versione in studio, appare sempre ferma su uno stesso clichè: scelta che oggi, forse, può apparire opinabile. Se nel 1983 aveva un senso proporre un unico trend sonoro, perché quello era il momento di mostrare al mondo intero quel nuovo sound in cerca di affermazione, questo perseverare oggi lascia perplessi.
“Ma è poi proprio obbligatorio dover cambiare sempre e comunque?” Dice di un ragazzo. “Quello che conta è avvertire la sincerità di una proposta artistica. Loro suonano così perché hanno voglia di suonare così”.
L’immutabilità di una formula, invece, secondo altri è mestiere, più che proposta artistica. Jim però, in effetti, appare sereno, si diverte, appare spontaneo, non ha l’atteggiamento graffiante dei primi ’80 ma appare appagato e felice. “Bellissima serata, Milano!” “Nessuno ha voglia di andare a dormire”, dice durante la performance.
Si sussegono “Belfast Child”, “The Dolfins”, “Alive And Kicking”, “Sanctify Yourself”, “Ghostdancing”, ma anche “This is it” dall’ultimo album a chiusura dello show, in una scenografia scarna che non sostiene adeguatamente i brani eseguiti.
Anche il modo di stare sul palco non registra variazioni di rilievo. Le mosse di Jim, quelle che ci sono rimaste scolpite nella memoria, come quelle del Live Aid, sono le stesse. C’è una sorta di parodia di sé stessi in questo, anche se espressa in modo sereno e rilassato, disinvolto. Non vogliono dimostrare nulla i Simple Minds (… e questo è il guaio!).
Un ragazzo giovanissimo, guardando Charles Burchill, dice: “Somiglia a Facchinetti, al chitarrista dei Pooh”. “No” – dice un altro – “Non a Facchinetti, a Red Canzian. Facchinetti non è il chitarrista, è il cantante, è il padre di DJ Francesco”.  A sentire questo scambio di battute mi viene la malinconia. Vorrei che la mia band riuscisse a produrre un nuovo miracolo sonoro e compositivo, ora che ce n’è tanto bisogno, e che il pubblico fosse lì, zittito e rapito da una novità sconvolgente. Preferirei il silenzio e lo stupore della novità al facile successo del concerto-karaoke, quello del canto collettivo sollecitato da Jim, che più volte rivolge il microfono verso la folla. Ma in fondo è una festa di compleanno, forse non si può chiedere di più. O forse sì: sarà pure un compleanno, ma è quello dei trent’anni, quello di una maturità anagrafica che dovrebbe proiettare questi artisti verso un ruolo di guida, anzichè verso espressioni autocelebrative che si risolvono in un beneficio più per il cuore che per la mente.

Giuseppe Basile © Geophonìe

David Byrne 22.04.2009, Modena, Teatro Comunale

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David Byrne, 22.04.2009, Modena (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Sarà pur vero che tra i modelli della nuova società globalizzata non ci sono più le rockstar. Che la loro perdita di carisma e capacità comunicativa ha sdoganato ogni sorta di espressione sonora (sino ad annullarle tutte).

Che il pubblico, assuefatto alla promiscuità – anche qualitativa – si è abituato a ciondolare con indifferenza da un evento all’altro senza più dare troppo peso ai differenti valori artistici in campo: ma quando accade di imbattersi, anche per puro caso, in uno spettacolo come quello che David Byrne ha messo in scena sul palco del Teatro Pavarotti di Modena, è inevitabile rinsavire dall’ubriacatura consumistica di offerta musicale che ha saziato ogni nostra curiosità e reso i nostri neuroni resistenti a quasi ogni tipo di sollecitazione (quasi).

Girovaghiamo da anni senza meta, tra un concerto di Caparezza e uno di Ivan Segreto, tra una sperimentazione etnica e world e qualche stereotipata esibizione hip hop, tra i reduci del vecchio rock progressive (ormai li ritrovi ogni sera, ovunque) e i solitari e sconosciuti artefici del nuovo, una schiera di nuove promesse in perenne promozione e che non saranno mai promosse finchè si limiteranno alla sola ricerca “autistica” di belle sonorità, senza null’altro da dire. Sembriamo anime in pena, ma continuiamo a girovagare, un po’ per abitudine (andare a vedere concerti fa parte del nostro stile di vita e non sappiamo rinunciarvi, anche ora che non ce ne frega granchè di ciò che andiamo a vedere), un po’ per diletto (tutto sommato non si è ancora totalmente sopita la segreta speranza di vivere un’altra serata-mito, come quelle che si viveva da ragazzi, quando l’acquisto del biglietto tre mesi prima, e l’attesa fuori dai cancelli sei ore prima, erano riti preparatori per coltivare la nostra “identità”).

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Giuseppe Basile © Geophonìe

Questo girovagare, insomma, per fortuna ci spinge ancora a curiosare. Cosa farà mai oggi il nostro vecchio David Byrne? Il leader carismatico dei nostri anni ’80 evoluti? Andarlo a vedere vent’anni fa sarebbe stata per noi un’azione doverosa, una chiamata alle armi, un atto di presenza di quelli da tramandare ai posteri per poter dir loro il fatidico “c’ero anch’io”. Oggi si va con uno spirito diverso, non una ragione di vita ma un impulso, che tuttavia sentiamo ancora di dover assecondare. A qualcuno, vista l’occasione, viene voglia di rispolverare qualche feticcio anni ’80, qualche spilletta punk-new wave da applicare sulla giacca per arricchire il proprio stile casual ragionato. Pizzetti intellettuali, basette stilizzate e geometriche, occhiali neri di osso in perfetto stile “Devo”. Ma sono le donne in sala quelle che in realtà esprimono meglio questa tensione stilistica-revival ai favolosi ’80: una signora ostenta un magnifico binomio chiodo-anfibi, in perfetta sintonia col jeans (di alta moda) e con una camicina di seta, strass e merletti nera (di alta boutique). Messa in piega vaporosa da cento euro fresca di giornata, con colpi di sole e tonalizzanti. Eccoli, gli anni 80. Il casual edonista, il finto casual. Strepitosa.

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Giuseppe Basile © Geophonìe

Il pubblico è rigorosamente over 35 (siamo buoni: forse, over 40), un campionario micidiale di facce anni 80, di visi e atteggiamenti borghesi innamorati dell’evoluzione, di riformisti-reduci della Milano-da-bere. Insomma, sembra un appuntamento di quelli stile gay-pride, anni80-pride, orgoglio generazionale. Assembramento più unico che raro. I neuroni degli avventori casuali avvertono qualche prima avvisaglia: “forse è un evento”. Tutti sono convinti che Byrne incentrerà il suo spettacolo sul nuovo disco e su qualche altra sperimentazione inedita, non escludono che qualche concessione al glorioso repertorio Talking Heads la faccia, ma nessuno pensa al tripudio, alla serata catartica, all’apoteosi. Sarà come tutti gli altri, un concerto del dopo, uno di quegli show interessanti ma che non potrà porsi sullo stesso piano degli exploit degli esordi di carriera, quando Byrne sembrava anni luce avanti agli altri, quando dettava le regole dell’evoluzione della musica e del costume. Si parte con un paio di battute di David che esordisce sul palco: “stasera fate tutte le foto che volete. Anzi usate pure il cellulare o inviate una mail. Dopotutto avete pagato il biglietto…” , elegante, vestito di bianco, con quel suo immutato portamento rigido e serio e quel suo tono ironico.

04 Byrne

Giuseppe Basile © Geophonìe

L’entrata, con altre dieci persone sul palco (la band è al tempo stesso un corpo di ballo di grandi capacità sceniche), è tutta per il nuovo disco “Everyhing That Happens Will Happen Today”, ma già il secondo brano scuote il pubblico del Teatro Pavarotti, sulle prime inibito dalla classicità austera del luogo. Il brano è “I Zimbra”, un’essenza del Byrne-pensiero, tra le composizioni più celebri e acclamate di tutta la carriera. Non c’è ovviamente la chitarra di Robert Fripp, come nella versione originale di “Fear Of Music”, ma l’esecuzione è altrettanto suggestiva e straniante, un tripudio di elettronica, funk e tribale, esaltato dalla possente prova del corpo di ballo. E’ il primo momento di apoteosi sonora della serata, percussioni e balli ipnotici afro-funk, in perfetto stile Talking Heads: ma si pensa sia solo un intrattenimento per rompere il ghiaccio. Si riprende con un paio di brani dell’ultimo album che il pubblico osserva con attenzione, ma all’improvviso, le note di “Houses in A Motion” danno a intendere che l’evento è di portata storica. Ai primi versi declamati da Byrne (“For a long time I felt / without style or grace …”) l’uditorio del teatro si elettrizza, e da allora diventa un’autentica violenza carnale la costrizione a restare seduti.

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Giuseppe Basile © Geophonìe

Il concerto sino a quel momento ha stupito e calamitato le attenzioni (vi sono state anche due esecuzioni tratte dal “My Life In The Bush Of Ghost”), ma ora si procede con una sequela mozzafiato di brani della band, da “Heaven”, a “Crosseyed and Painless”, da “Born Under Punches (The Heat Goes On)”, sino all’apoteotica “Once in a Lifetime”, in cui Byrne canta accentuando l’atteggiamento declamatorio delle note strofe iniziali (“And you may find yourself …”), come in una sorta di parodia di sé stesso necessitata dalla location teatrale. Lo spettacolo sale alle stelle. Ancora pochi brani e il pubblico si alza definitivamente per il ballo liberatorio collettivo della platea e di cinque piani di palchi. Un tripudio mai visto. Si va avanti con una dance indiavolata sul palco, corse e girotondi in stile Talking Heads, sino alle finali “Take Me To The River”, “Burning Down The House” e alla chiusura elegantissima di “Everything That Happens” . Concerto irripetibile, che riconcilia con le identità perdute e ci consente di cogliere le distanze siderali tra la genialità artistica degli iniziatori assoluti e l’ordinarietà della scena musicale del nostro quotidiano.

Giuseppe Basile © Geophonìe.

White Stripes 21.10.2005, Bologna, Palasport

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White Stripes. 21.10.2005, Bologna Palasport (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Amici,
ieri sera ho rischiato la vita (e la macchina fotografica) al concerto dei White Stripes. Non mi capitava dal 1993 (quando vidi Robert Plant al Festival Blues di Pistoia. Come quella sera, infatti, all’improvviso ieri mi ritrovo in mezzo ai ragazzi che “pogano” in modo violentissimo su tutto il parterre del palasport di Bologna. Un pubblico di età media tra i 20 e i 25 anni. Ero a dieci metri, anche meno, dal palco, ma appena è iniziato il concerto, violentissimo, la folla è impazzita letteralmente, e ha iniziato a ballare a spintoni e giravolte pazzesche. C’era anche chi rotolava sulle teste del pubblico, a corpo morto, lanciato in aria da un gruppo all’altro. Spaventoso. Dopo i primi cinque minuti ho deciso di andare indietro, ma la situazione era disagevole anche nelle retrovie. Fittissimo, infatti, era il pubblico sul parterre, tanto che poi, verso la fine, mi sono fatto forza e a spintoni ho riconquistato le prime file, ma in una posizione meno centrale rispetto al palco: lì, finalmente, sono riuscito a fare una quindicina di scatti.

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Meg White, 21.10.2005, Bologna (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Il concerto non mi è piaciuto perchè la composizione mi è parsa povera, poco originale, anche se ricchissime erano le sonorità. Lui, Jack White, devo ammettrlo, mi è risultato alquanto antipatico, interpretava un po’ la figura di un pazzo che invoca il satanismo (in modo retorico e involontariamente umoristico) e che inevitabilmente finiva con lo scimmiottare Angus Young, o Plant, o Ozzy Osbourne, o altri. Tutte pose già viste. Notavo però che i giovanissimi non coglievano queste imbarazzanti parentele artistiche, a tutto sfavore di Jack White ovviamente.

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Jack White, 21.10.2005, Bologna (Giuseppe Basile © Geophonìe)

A un certo punto il Nostro ha accennato le note di “In My Time Of Dying”, dei Led Zeppelin (di Physical Graffiti), e ho rilevato che nessuno si è scomposto: non la conoscevano (e quindi non conoscevano nemmeno la versione originale di Bob Dylan che è l’autore). Lei, invece, Meg, mi è piaciuta moltissimo, con quella  faccia da gatta malefica ma al tempo stesso bella, sensuale, percuoteva le percussioni come una bambina di cinque anni e con uno stile personalissimo: un’immagine che forse resterà nel mondo del rock, chissà.

The Greenhornes

The Greenhornes (Guests, Opening Act) – Giuseppe Basile © Geophonìe

E’ stato un tipico concerto heavy metal, caratterizzato da quella voglia irresistibile (tipica di questo genere di musicisti) di fare un casino infernale a suon di effetti, echi e riverberi chitarristici. Godono nel fare casino, nel fare ostentati virtuosismi chitarristici e nel cantare in modo sgraziato, a discapito della sostanza compositiva: non si preoccupano di trovare un motivo forte di composizione. I White Stripes di ieri sera hanno insistito su melodie corali nelle quali questo pubblico suggestionabile si sente unito, accomunato da quel senso di ubriacante appartenenza a una immaginaria schiera di adepti, adoranti di questo nuovo mito musicale e dei simbolismi inutili che questo si porta a  corredo. Non possono disconoscersi, però, le notevoli abilità tecniche di Jack, la sua potenza sonora, la sua capacità interpretativa. Può non piacere, certo, ma chi predilige questi stili musicali trova nella sua performance uno spettacolo degno di rilievo.

Fatta eccezione per lei, Meg, che per la sua atipicità, scenica e tecnica, vale un viaggio, la serata mi è risultata tutto sommato evitabile, ma devo essere sincero: forse semplicemente non è il mio genere.

Giuseppe Basile © Geophonìe.

Jefferson Starship 15.07.2005, Salò

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Jefferson Starship Galactic Reunion, Salò (BS, Italy), 15.07.2005 (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Le recensioni sono difficili da stilare quando c’è di mezzo il cuore. E per chi non ha mai visto, prima di quest’estate, un’esibizione degli antichi Jefferson Airplane, perseguire l’obiettività diviene impresa ancor più ardua. Si è consapevoli di assistere a una performance che dispenserà solo briciole di magia e scampoli della loro arte originaria, ma farsi delle illusioni e nutrire certe aspettative, vista la rarità di un tale evento, è una debolezza legittima: il concerto è l’ultimo della tournee italiana con la quale si è celebrato degnamente il quarantennale della Summer Of Love e la performance vedrà il contributo di altri prestigiosissimi artisti della scena di San Francisco (Country Joe McDonald, Tom Constanten dei Grateful Dead, David Freiberg dei Quicksilver).

A Salò, in verità, mancano i Big Brother & The Holding Company: le uniche date in cui si è potuto assistere allo show completo previsto per la commemorazione sono state quelle di Porto S.Elpidio e Salerno, mentre a Genova, Pistoia, Udine, le varie formazioni non si sono esibite, contestualmente, tutte insieme. Manca, inoltre, Marty Balin degli stessi Jefferson, che ha disdettato l’impegno italiano nell’imminenza della tournee. Niente di grave, sono solo dettagli, pensano i fans, desiderosi di ascoltare “Have You Seen The Stars Tonite” e per i quali tutto il resto non conta.

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Country Joe McDonald, Salò, 15.07.2005 Giuseppe Basile © Geophonìe

Si parte con la simpatica introduzione di Country Joe McDonald, prima da solo e poi accompagnato dagli altri, che intona qualche traditional,  regala al pubblico “For What It’s Worth” dei Buffalo Springfield e la sua immortale “I-Feel-Like-I’m-Fixin’-To-Die-Rag”, con l’immancabile “datemi una F, datemi una U … What is the spell ? FUCK!” che il pubblico attendeva. Si procede con Tom Constanten al pianoforte che sembra voler intrattenere il pubblico in modo un po’ improvvisato (frattanto, tutti i Jefferson si sono già avvicendati sul palco, eccetto Paul Kantner … ma è sicuro che c’è?), e suona “Cold Rain And Snow”, canta in perfetto italiano “Volare” di Modugno, ma tiene il pubblico sulle spine, nonostante la sua gioviale e rasserenante presenza scenica.

Terminato il suo mini show, c’è già una pausa con manovre tecniche, accordature, montaggi e altro, ma finalmente entrano sul palco i Jefferson Starship, con Diana Mangano in una forma smagliante che canta “Sunrise”, “Hijack”, “Have You Seen The Stars Tonite” e “Starship” una dietro l’altra. La suite è mozzafiato, anche se manca l’atmosfera mistica che dovrebbe accompagnare tali grandezze musicali: il palco è illuminato a giorno come a una festa dell’Unità, Paul Kantner non entra immediatamente con gli altri, ma li raggiunge durante l’esecuzione di quei brani, si accorda la chitarra mentre gli altri suonano, sembra stanco, scontroso. “Speriamo bene”, mormora il pubblico: è l’ultima serata italiana, del resto, e conclude una serie di date in cui la band deve essersi strapazzata abbastanza (tra Udine e Salerno, Porto S.Elpidio, Genova e Pistoia: insomma, hanno anche un’età!).

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Paul Kantner, Salò (BS, Italy), 15.07.2005 – (Giuseppe Basile © Geophonìe)

Il concerto, comunque, dopo queste incertezze iniziali decolla, merito soprattutto di Diana Mangano che attira l’attenzione del pubblico dispensando sorrisi psichedelici e vitalità, con la sua energia, i suoi sguardi radiosi, le pose da dea hippie e numeri da spettacolo anni ’60 (vaga su e giù per il palco, fa una verticale mentre Prairie Prince si lancia in un assolo di batteria, mani per terra e piedi in aria). La serata comincia a salire di tono e il pubblico si fa avanti, sotto il palco. La sequenza dei brani, del resto, non ha eguali nella storia del rock e non teme confronti: “Get Together”, “When The Earth Moves Again”, Greasy Heart”, “All Fly Away”(da “Dragonfly” dei Quicksilver) . Si arriva a “Crown Of Creation”, “Pride Of Man” cantata da David Freiberg, sino agli uragani psichedelici che Mr.Kantner, ormai perfettamente ambientatosi sulla scena, riesce a propagare nell’etere di una piccola aiuola di Salò, come se fosse di fronte a spazi cosmici smisurati. “Eskimo Blue Day”, “Wooden Ships”, “White Rabbit”, “Ballad Of You & Me & Pooneil”, intervallate da “Jane” e “Who Do You Love”, quest’ultima interpretata da Freiberg.

Il finale è da infarto, con Diana Mangano ormai fuori misura che scatena l’euforia collettiva con “Somebody To Love” e “Volunteers”. Con l’uscita di scena del gruppo, i tecnici di Salò pensano sia tutto finito e staccano la corrente, ma il pubblico non vuole saperne. Paul Kantner richiama sul palco Diana e David Freiberg e intrattiene il pubblico prima cantando con loro (senza microfoni e con la chitarra spenta) un improvvisato unplugged di “The Other Side Of This Life”, di Fred Neil/Harry Nillson, poi firmando decine di autografi ai fans più affezionati, nella commozione generale.

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Diana Mangano, Jefferson Starship, Salò (BS, Italy), 15.07.2005 – Giuseppe Basile © Geophonìe

Nonostante le imprecisioni, anche nella resa di alcuni brani, il gruppo ha dimostrato di saper ancora sfoderare e diffondere la propria spiritualità e quel senso di libertà che è completamente scomparso nei concerti di oggi, imprigionati in cliché precostituiti che condizionano anche le forme espressive, il modo stesso di tenere il palco. I Jefferson sembrano invece intercambiabili nei ruoli, passano liberamente dalle dolcezze country agli uragani elettrici, avvicendandosi con mogli, figli, bambini sul palco che passeggiano tra gli strumenti, e alternandosi nella conduzione dello spettacolo con i colleghi di scena, talvolta seduti a guardare, talaltra partecipi del rito collettivo.

Lo spettacolo è fondato sull’Armonia, quella che nasce da una libertà artistica superiore che si estende sino a ricomprendere errori tecnici, sfasature ed umane stanchezze. Il cerchio della Summer Of Love italiana, dunque, si chiude (proprio a Salò, dove lo scorso anno si era esibita l’altra parte dei Jefferson, gli Hot Tuna di Jorma Kaukonen e Jack Casady) con la rassicurante conferma che i nostri eroi sono ancora saldamente insediati nell’empireo dei grandi grazie all’universalità della loro arte musicale che ha travalicato il suo tempo.

Giuseppe Basile © Geophonìe

Patti Smith 30.06.2005, Modena, Music Village

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Giuseppe Basile © Archivio Fotografico Geophonìe

Occorreva sicuramente una scossa di autentico rock elettrico sul palco modenese del Music Village, contenitore orientato verso una programmazione cantautorale dai toni pacati e che sinora era apparso più indicato per le performance di artisti votati a una ricerca di linguaggi intimisti e sofisticati. Nel programma di questa stagione, infatti, si sono avvicendati Nick Cave e Tori Amos, Elvis Costello e De Gregori: per i cultori duri e puri del rock, insomma, pareva un cartellone di minore interesse rispetto alle tante altre programmazioni in corso e ai contestuali festival tematici che prosperano un po’ ovunque nel periodo estivo.

Il Music Village, pregevole contenitore di eventi (espressione del Pavarotti International) e dotato di una ottima struttura, nell’anno passato era stato oggetto di critiche per il proprio programma, ritenuto un po’ troppo glamour e generalista: caratteristica, questa, confermata anche quest’anno, ma che risponde alle esigenze di un pubblico ormai sempre più eterogeneo  rimasto in città, e in cerca di un’offerta artistica variegata.

Tra i musical (Grease, La Febbre del Sabato Sera) e i divi italiani (Laura Pausini, Elisa), tra il varietà (Fiorello), le serate dance e il teatro cabaret (Littizzetto, Riondino), Patti Smith è stata l’artista destinata a tenere alta la bandiera del rock, posizionandosi tra gli esperimenti sonori evoluti di Elvis Costello e le oscurità di Nick Cave, suoi colleghi di area rock che prima e dopo di lei si sono avvicendati sullo stesso palco.

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Giuseppe Basile © Archivio Fotografico Geophonìe

La performance di Patti ha visto un’entrata intellettuale, di fronte a un pubblico ordinatamente seduto e attento. La Smith ha esordito con brani lenti e profondi, tipici del suo personalissimo stile cantautorale (“Beneath The Southern Cross” , “Wing”, tratti dallo splendido “Gone Again” del 1996), ma al quarto brano ha cambiato improvvisamente marcia e invitando il pubblico ad alzarsi ha scatenato il suo rock viscerale con “Free Money”, tratto dal mitico “Horses” del 1976. E’ stato il tripudio immediato. La serata ha trovato la sua irreversibile svolta e nessuno ha più avuto la forza di sedersi.

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Giuseppe Basile © Archivio Fotografico Geophonìe

Il crescendo – artistico ed emotivo – è stato assicurato dall’incalzante serie di brani sfoderati da Patti, dalla cover di “Like A Rolling Stone” di Bob Dylan (che lei ha ringraziato, urlando “Thank You, Bob!”), e dalla successiva cover di “Not Fade Away“ dei Rolling, intervallate dal reggae rock di “Redondo Beach” e seguite dalla sequela di hits storici dell’artista, sino alle immancabili “Gloria”, “Because The Night”, Horses”, “Dancing Barefoot”.
Patti Smith ha pescato da tutti i suoi lavori, ha eseguito “Ain’t It Strange” tratta da “Radio Ethiopia”, “25th Floor” da “Easter”, scatenando il rock più genuino e trascinante che possa esistere, per la gioia collettiva del pubblico. La potenza sonora, comunque, veniva sapientemente intervallata dalle sue ballate poetiche, dalle “Peaceable Kingdom” ed altre composizioni presenti nel suo ultimo lavoro del 2004, “ Trampin’ “, che presentò in Emilia nella passata tournee dell’autunno scorso, con concerti di sublime bellezza al Fillmore Club di Cortemaggiore (Piacenza) e a Bologna.

Nel corso dello spettacolo, poi, Patti ha recitato una poesia che ha dedicato a Giovanni Paolo II e ha cercato di comunicare, sempre in quel suo modo così vibrante e personale, con il pubblico, incitandolo a gridare: “Mai più guerra!”, in coro, con forza, come un inno e non solo come speranza o gesto propiziatorio. E’ una forma di comunicazione, quella di Patti Smith, che nelle mani di qualsiasi altro artista risulterebbe retorica, ipocrita, nostalgica o vagamente utopistica. Ma quando sul palco c’è lei a mettere in scena questo ballo furioso per urlare la voglia di pace e giustizia, la sua onestà e fede è talmente forte e convinta che lo stesso pubblico, anche quello che magari non condivide pienamente l’ideologia dell’artista, si sente piccolo di fronte alle sue convinzioni e ha quasi voglia di inchinarsi innanzi a cotanta veemenza.

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Giuseppe Basile © Archivio Fotografico Geophonìe

Il ballo con la bandiera della pace in testa, diventato quasi un rito nelle sue numerose performance, è qualcosa che lei rappresenta senza alcuna autoironia, è disposta quasi a inscenare una parodia di se stessa pur di arrivare oltre il cuore della gente, e cioè al cervello. E’ un messaggio semplice, in fondo, ma di una tale intensità che è come un’onda d’urto che si riversa su un pubblico ormai imborghesito da venti o trent’anni, e che solo di fronte alla potenza poetica di Patti riesce a farsi accarezzare, ancora una volta, dalla magia comunicativa del rock. L’interpretazione di Patti è magistrale, sempre di petto, mai un falsetto o un cedimento. Rigorosa, quasi severa, dal palco lancia i suoi anatemi contro i mali del mondo, cercando al tempo stesso di portare per mano il suo pubblico verso il terreno fatato della bellezza, della poesia e dei sentimenti. Un concerto di Patti Smith è un’emozione interiore, un brivido che attraversa la nostra anima, come non accade quasi più.

Da non perdere.

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Tom Verlaine (Giuseppe Basile © Archivio Fotografico Geophonìe)

Fantastici anche i suoi musicisti di sempre, Lenny Kaye (chitarra), Tony Shananah (basso), Jay Dee Daugherty (batteria). Fantastico anche Tom Verlaine dei Television, che l’ha accompagnata sul palco di Modena e che pochi giorni dopo (il 20 luglio 2005) abbiamo potuto rivedere, proprio con i Television, in un’unica e assolutamente inattesa data italiana ad Alberobello (Bari), fra i trulli (serata durante la quale i Television hanno riproposto i propri classici tratti dal mitico “Marquee Moon” e hanno anch’essi omaggiato Bob Dylan con una loro versione – un po’ incolore, in verità – di “Knockin’ on The Heaven’s Door”.

Giuseppe Basile © Geophonìe

 

Deep Purple 04.06.2003, Bologna, Made in BO

03.Deep Purple (04.06.2003,Bologna, Made in BO)Sul palco del Made in Bo salgono i Deep Purple, di fronte a un pubblico non numeroso e composto per lo più da “reduci e combattenti”. In verità sembra più nutrito il gruppo dei reduci, piuttosto che quello dei combattenti. I giovani, infatti, quelli sotto i trent’anni, si contano sulla punta delle dita e in fondo è giusto così. I padri dell’hard rock continuano a esibirsi in tutto il mondo di fronte a generazioni di musicofili che si recano a vedere i loro concerti indossando la maglia dei Metallica, dei Motorhead, degli Iron Maiden e dei Black Sabbath: dei discepoli dei Deep Purple, in definitiva. Quindi è chiaro che ormai il concerto che portano in scena non può che essere una sorta di visita alle vestigia degli antichi padri, una visita archeologica.

L’hard rock dei Deep Purple suona oggi quasi come una soft music, in confronto con quello che è sorto dopo il loro avvento. E Ian Gillan e soci lo sanno bene. Per questo non ci provano neppure a gonfiare il concerto, a renderlo altisonante, a ripristinare d’autorità una distanza irrimediabilmente perduta col mondo dell’hard, e non più recuperabile. Non fanno, insomma, quello che ad esempio farebbero i Rolling Stones, sempre occupati a tenere alto il proprio mito, sempre impegnati ad architettare tournee maestose e tronfie, con suoni e scenografie ingigantite. I Deep Purple preferiscono prendere atto del tempo che passa e scendono in pista con un concerto in perfetto stile anni 70, senza cambiamenti particolari negli arrangiamenti dei pezzi celebri. Si presentano, cioè, come un classico, da rivedere e risentire per quello che è. Del resto, particolari vette non si possono obiettivamente raggiungere: Ian Gillan appena entra sul palco procede con l’apertura obbligata, l’unica concepibile, quella “Higway Star” di “Made in Japan” che è entrata nella leggenda, ma con la metà della voce. Cominciamo male. Sembra quasi che canti in falsetto, come i Cugini di Campagna di “Anima mia”, e non prende quasi mai di petto le note. A volte la voce sembra sussurrata, sembra addirittura un problema di audio.

In realtà, invece, il calo di potenza della voce del buon Gillan risulta notevole anche nel corso del concerto, ma dopo i primi momenti di smarrimento per questa deminutio il pubblico si abitua a questo standard canoro e non ci bada più. L’interpretazione vocale di Gillan in sordina sembra quasi contribuire a definire il concerto come una sorta di rivisitazione, come quando ci si ritrova a canticchiare a voce più bassa e con minore enfasi un brano famoso di tanti anni fa. Poi ci si rende conto che non c’è nemmeno Ritchie Blackmoore alla chitarra, nè Jon Lord alla tastiera, cioè tre quarti del gruppo. Sono assenze note da anni, ma sempre difficili da assimilare. Quando ci si trova di fronte ai Deep Purple automaticamente si pensa che ci siano anche loro. Li sostituiscono, però, degnamente, Steve Morse e Don Airey, sempre della famiglia Deep Purple (hanno suonato per anni con Blackmoore nei Raimbow, e collaborato con tantissimi gruppi hard rock e traditionals). E anche Ian Paice, ormai, è lontano anni luce dal micidiale assolo di “The Mule”, leggendario come ogni altro brano di “Made in Japan”.

Il concerto, comunque, fatte queste premesse, prende il volo con le ali di cui oggi dispone e senza complicazioni. E’ uno show anni 70, con cavalcate maestose di organo e pianoforte elettrico che si intrecciano, duettando, con altrettante scale di chitarra elettrica, sulla base corposa di basso e batteria dei due originari fautori della base ritmica dei Deep Purple, ovvero Roger Glover e Ian Paice. Roger appare quello più in forma del gruppo, vigoroso, con una linea di basso poderosa e quasi preponderante sul suono complessivo (pur in presenza di tanta chitarra elettrica e tastiera). Quel sound corposo del basso caratterizza tutti i brani eseguiti dai Deep Purple, anche quelli più recenti e che proprio per l’impostazione ritmica e il tipo di suono rotondo e rimbombante del basso sembrano composti anch’essi negli anni 70. Ma è giusto così. E’ il loro modo di esprimere la composizione musicale, il loro modo di tradurre in suono l’idea. Il mestiere fa il resto e gioca moltissimo nel concerto. Si vede che tutti hanno una padronanza e una scioltezza, una disinvoltura tipica di chi ha l’abitudine di stare sul palco ad alti livelli tecnici: eccetto Gillan, che usa molto mestiere per coprire, purtroppo, la sua minore potenza vocale. Anche lui, comunque, si difende con dignità assoluta, senza imbarazzo, tanto da far passare come normale, come accettabile, una diversa resa di quei brani. Brani che tanto, in ogni caso, fanno saltare il pubblico dei reduci, come nella immancabile “Smoke On The Water” e negli altri classici e meno classici, tutti graditi.

In perfetto stile anni 70 anche il momento degli assoli individuali e dei rispettivi virtuosismi: trionfante e faraonico quello delle tastiere di Don Airey, che spazia dal brano di musica classica “Alla Turca” sino al leit motiv di “Guerre Stellari”, passando per bufere psichedeliche e atmosfere rock blues datate e perciò di effetto; ipertecnico quello di Steve Morse, in stile da chitarrista metal moderno e quindi, necessariamente, con una minore dose di carisma. La chitarra metal è sempre un po’ impersonale e leziosa, se paragonata a quella di Blackmoore. Ma è il genere stesso, hard rock tradizionale, che esce un po’ malconcio dalla performance.
L’impatto è necessariamente di minore effetto dopo aver ascoltato un decennio di punk e un successivo decennio di grunge, perché l’hard rock alla Deep Purple è rimasto identico a sé stesso, così com’era, lontano dalle nuove contaminazioni, ma ritagliandosi la sua onesta fetta di mercato a dispetto dei ritmi più evoluti e delle evoluzioni musicali che dai Sex Pistols sino ai Nirvana hanno determinato un nuovo concetto di “energia” in musica.

Nel complesso, comunque, i Deep Purple si riaffermano con uno show per “amanti del genere”, da vedere senza troppe pretese e col giusto spirito della rievocazione. Voto più che sufficiente, sia per tasso tecnico, sia come Oscar alla carriera.

Giuseppe Basile © Geophonìe

 

Sarah Jane Morris 29.07.2003, Modena, Giardino Ducale Estense.  30.07.2003, Carpi, Piazzale Re Astolfo

Sarah Jane Morris L’esordio italiano di Sarah Jane Morris, con la sua tournee di presentazione del suo ultimo lavoro “Love And Pain”, rischiava di essere oscurato dai tanti concertoni estivi e rappresentazioni che in questo periodo hanno monopolizzato l’attenzione delle piazze di Modena e di tutta Italia. Invece la jazz singer britannica è riuscita ugualmente a imporsi, nonostante l’evento fosse stato poco pubblicizzato, richiamando un pubblico che è accorso numerosissimo ad applaudirla nella cornice più intima e sofisticata dei Giardini Ducali, proprio a pochi metri dalla Piazza Grande sul cui palco si erano appena avvicendati in pochi giorni De Gregori, Mannoia, Oxa e altri. 

Estroversa, generosa, prima di eseguire le nuove composizioni ha spesso illustrato i contenuti del disco (per la prima volta scritto interamente da lei),  dedicato alle donne e all’universo femminile da cui ha tratto ispirazione nel corso della sua carriera: disco che comunque, per quanto eccellente sia, non regge al confronto con l’impatto live della cantante, di fronte al quale ogni lavoro in studio appare inevitabilmente più statico e soft. Sarah esordisce con “I Can’t Stand The Rain”, “Into My Arms” del precedente lavoro (August, 2001), ma rapisce letteralmente il pubblico con una superba versione di “Move On Up” (sempre da “August”). Si prosegue poi con “Fragile” di Sting, per riscaldare il pubblico con brani noti, poi si giunge alle composizioni dell’ultimo disco, “Innocence” , “Blind Old Friends” e “It’s Jesus I Love” sospesi tra il pop e il jazz, con una band capace di creare la giusta tensione e la varietà stilistica necessaria per tenere alta l’attenzione del pubblico.

Il concerto, infatti, alterna momenti di profonda intimità dominata dalla vocalità superiore di Sarah a momenti di più facile comunicativa e ritmo. Dopo i tre brani del nuovo lavoro Sarah concede al pubblico il momento più ludico con una “Piece Of My Heart” di Janis Joplin in chiave reggae, allegra e frizzante. In seguito regalerà altri momenti di easy-listening con un omaggio a Barry White (“Never Gonna Give You Up”) o con una autocelebrazione della propria “Me And Mrs. Jones” , che nonostante i ripetuti ascolti il pubblico mostra sempre di gradire. Si prosegue con “Chelsea Hotel” (ancora tratto dal precedente “August”), momento perfetto di fusione tra voce e chitarra acustica senza altri strumenti, e poi si ritorna ai brani inediti, dalla spirituale “Fields Of Wheat”, ai temi più pop e ritmici di “Cowboy Junkies” e “Arms Of An Angel”, alla splendida e blueseggiante “A Horse Named Janis Joplin”.

Ma dopo tanto lusso e interpretazioni colte, compresa un’ultima versione concessa tra i bis di “I Don’t Wanna Know About Evil” (da “Fallen Angel”, 1998), lo show raggiunge il suo massimo con una furiosa “Too Close” (da “Blue Valentine”, 1995), rhythm’n’blues potentissimo che fa saltare il pubblico, con Sarah Jane che modula in modo lancinante la sua voce rauca con acuti da gatta e che si scaglia sul microfono come una Robert Plant al femminile, avvolta dalla sua chioma rossa di capelli ricci.

Eccelsa anche la band, con Matt Baker alla chitarra (session man di Sinead O’ Connor, Julian Lennon, Swing Out Sister, Bob Geldof, Joe Cocker), Mornington Lockett al sax (reduce da una serie di concerti al Jazz Cafè di Londra nientemeno che col leggendario Jimmy Smith all’organo Hammond), e Martyn Barker alle percussioni, coautore e produttore del disco, anch’egli noto per collaborazioni internazionali di gran pregio, da Billy Brag sino alla Real World.

La serata successiva a Carpi appare un po’ penalizzata dal luogo meno accogliente e più angusto, ma conferma l’alto livello della performance, con qualche variazione di scaletta (qualche cover in meno, e in più l’interpretazione del brano singolo “Love And Pain”, mancante nella prima serata di Modena).

Giuseppe Basile © Geophonìe

SOFT CELL 19.02.2003, Nonantola (Modena), Vox Club

© “Cruelty Without Beauty”, Coocking Vinyl, Spin Art Records, 2002

Stavolta al Vox Club, tempio emiliano della musica di qualità, non si registra il tutto esaurito cui si è appena assistito per la tre giorni di concerti di Carmen Consoli. I tempi cambiano, si sa. Ma c’è pur sempre un bel pubblico, che attende con serenità l’inizio di un concerto sicuramente molto raro e inusuale e che vale sempre la pena di vedere. Non si sa bene che tipo di spettacolo portino oggi i Soft Cell sul palco e nemmeno il perché di questo mini tour. Forse è solo un consolatorio revival, o forse è un preludio alla pubblicazione di qualche nuovo lavoro.

Rimane però la curiosità di vedere che fine hanno fatto due dei più grandi e affidabili compositori degli anni ’80, e cosa abbiano in mente oggi.  Lo stupore è grande non appena Marc Aldmond apre il concerto con “Memorabilia”, il primo brano del gruppo. Dave Ball è immobile dietro tastiere, sintetizzatori e batterie elettroniche; Marc è al centro del palco, felice, rassicurante e radioso, mentre canta e balla esattamente come vent’anni fa. Vestito di nero, magrissimo, si esprime subito senza ostentazione, senza forzature, in modo naturale e inesorabilmente contagioso. Il brano è un tripudio di elettropop della prima maniera. Era il 1981, l’anno dei Soft Cell. Con un EP autofinanziato intitolato “Mutant Moments”, venduto porta a porta nei negozi dagli stessi Marc e Dave, i Soft Cell attirarono l’attenzione dell’etichetta Some Bizarre che produsse il primo singolo, “Memorabilia”. Il brano veniva suonato dappertutto. Fu il successo negli ambienti underground, la nascita  della “new wave”.

Il concerto di oggi va avanti sulla stessa frequenza: si procede con “Monoculture” e “Le Grand Guignol”, tratti questa volta dal loro ultimo lavoro (Cruelty Without Beauty, 2002), poi a seguire con i vari “Divided Soul”, “Baby Doll” della vecchia produzione, e poi di nuovo con i brani recenti, “Last Chance”, “The Night”, “Together Alone”.

L’alternanza tra il vecchio e il nuovo dimostra la continuità del gruppo nella propria visione musicale ed è proprio questo ciò che stupisce di più: quando due artisti suonano con tanta serenità e allegria, senza cambiare una virgola negli arrangiamenti, nel metodo, nella scenografia, dimostrano quanto sia genuina la propria ispirazione. Non sentono alcun bisogno di adeguarsi alle mode e alle nuove sonorità, cosa che accade quando ciò che si rappresenta sul palco risponde al proprio più intimo sentire.
Marc e Dave confermano il proprio approccio compositivo elaborando le visioni musicali odierne e suonando esattamente come vent’anni fa, come se il tempo non fosse trascorso, e il bello sta proprio nel vedere che non mostrano alcun imbarazzo per questo. Anzi, la loro arte si esprime in un modo così naturale che persino un pubblico di vent’anni dopo percepisce questa sicurezza artistica e si abbandona a uno spettacolo genuino e assolutamente artistico, scrollandosi così il dubbio e il timore di ritrovarsi in una sorta di svago autorizzato o in un’area di parcheggio consolatoria.

02.Soft Cell (19.02.2003, Nonantola (MO), Vox Club)Non è un concerto per reduci e nostalgici, e neppure un meeting rivendicativo di un’identità artistica dimenticata. Si assiste a un concerto che è un evento di pura pop-art, tanto da non accorgersi di essere al centro di un party gay, animato dalla sola sicurezza propositiva di Marc e Dave e dalla condivisione del pubblico. Si procede con “Youth”, poi con “Soul Inside” in cui Marc Aldmond si lancia nelle sue vocalità chiare e potenti e trasforma definitivamente lo show in una performance techno-dance talmente autentica e originale da impedire a chiunque di definirla retrò. “Torch”, “Bedsitter”, “Falling Apart” raccolgono il giusto e doveroso tripudio di un pubblico attento e affezionato verso i creatori di un genere musicale, i portatori di un’idea originaria che non deve fare i conti col tempo.

La chiusura, con “Insicure Me”, “Tainted Love” e “Say Hello Wave Goodbye” lascia un solo rimpianto: quello di non aver potuto prolungare la festa, ascoltando dal vivo qualche altra perla di un piccolo grande gruppo che si riconferma unico al mondo.

Set List: 1) Memorabilia 2) Monoculture 3) Le Grand Guignol 4) Divided Soul 5) Baby Doll 6) Last Chance 7) Barriers 8) Youth 9) Loving U 10)Mr. Self 11) Together Alone 12) The Night 13) Soul Inside 14) Toech 15) Bedsitter 16) Falling Apart 17) Insecure Me 18) Tainted Love 19) Say Hello Wave Goodbye.

Giuseppe Basile © Geophonìe

Peter Gabriel 18.09.2002, Milano, Alcatraz

Peter Gabriel (Marcello Nitti © Geophonìe)

Lo si attendeva ormai da troppo tempo, e con trepidazione. La presentazione del suo nuovo album, dunque, era inevitabile desse luogo a grandi aspettative: non sono bastate, però, l’emozione dell’incontro e la difficoltà di comprensione dei brani inediti per annullare del tutto la capacità di giudizio dei fans. Molti, come il sottoscritto, hanno preferito attendere l’uscita dell’album (avvenuta due giorni dopo, il 20) per riascoltare i brani eseguiti e rileggere mentalmente il concerto milanese. Che non è stato certo brutto, per carità. Ma che ha riproposto un Peter Gabriel sostanzialmente molto vicino a quello di dieci anni fa. Si può tollerare che un disco somigli al precedente quando il suo autore ne pubblica uno all’anno. Ma se dopo dieci anni ci si imbatte in un disco che suona come il precedente, o giù di lì, le cose cambiano.

La performance del 18 parte con “Darkness” , composizione alta e di effetto, ma che appare “disturbata” da una chitarra che ricorda forse i barriti di “Elephant Talk” dei King Crimson di vent’anni fa (Discipline, 82). Il brano (risentito, poi, a mente fredda è molto lirico, e la “dark” con cui viene reso, tra chitarre e bassi progressive, ma ormai meno progressive di un tempo, lo appesantisce).
Si prosegue con “Red Rain” che è quella che tutti conosciamo e quindi scivola via con l’unica funzione di non farci sentire totalmente estranei alla performance.
Peter va avanti con “Growing Up”, inedito più accattivante e di più facile comprensione, che sembra convincere tutti, ma che in fondo poi si rivela essere un brano pop come “Steam” del vecchio “Us” del 1992, destinato, cioè, a dare un movimento blues e soul in un disco che altrimenti sarebbe risultato troppo lento e grave.
Si procede con Sky Blue, sempre del nuovo album ma scritto nel 1991 (e infatti si sente). Il concerto, seguito con religiosa attenzione del pubblico, si accende maggiormente quando Peter intervalla le nuove composizioni con i brani vecchi (ma sempre di “So” e “Us” , quasi a voler sottolineare come il nuovo album sia il terzo capitolo di una trilogia): scorrono, così, “Mercy Street” che Peter interpreta alla grande, “Digging in The Dirt” che ci siamo stancati di sentire, e “Sledgehammer” che ormai prendiamo solo come necessario momento ludico e ballerino delle performance di Peter in quanto, musicalmente, ha ormai valore di modernariato.
“No Way Out” e “I Grieve” sono due tipici brani di Gabriel, di quelli che richiedono più ascolti e che nel concerto non potevano essere completamente recepiti: di sicuro spessore, ma in qualche modo noiosi (come risultava un po’ “Love To Be Loved” di Us, a cui per certi versi assomigliano, sebbene più cupi e ritmicamente diversi).
Si va avanti con “The Barry Williams Show”, lanciato come brano guida commerciale del disco, ma che – al sottoscritto – musicalmente appare come una drammatica variante di “Digging in The Dirt”, non necessaria e di scarsa originalità.
Decisamente positiva invece appare la presentazione di “My Head Sounds Like That” e “More Than This”, brani che anche dopo il “riascolto” dell’album dimostrano di essere i più completi come composizione, sonorità e godibilità (e che chiudono anche il disco con un ottimo crescendo compositivo, vario e suggestivo, sino ad arrivare a “Signal To Noise” e “The Drop”, eccezionali, ma che nel concerto non hanno trovato spazio). “Solsbury Hill”, “In Your Eyes” e “Downside Up” (quest’ultima ben cantata dalla giovanissima e carina Melanie Gabriel, nello scomodo ruolo di sostituta dell’immensa Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins), intervallano gli inediti col solito tripudio del pubblico.

Concerto di sicuro valore, anche se – musicalmente parlando – in fase ancora sperimentale e necessariamente minimale come scenografia (aspettiamo, ora, il tour mondiale).
Rimane, però, la soddisfazione “parziale” per aver visto ancora un Peter Gabriel in versione pop, come quello dei due precedenti e lontani lavori (“So” 1986; “Us” 1992) e il dispiacere per non aver ritrovato l’insuperabile Peter lirico che si attendeva col nuovo lavoro. Con la sola “Here Comes The Flood”, infatti, richiesta a gran voce a fine concerto e da lui eseguita in modo sublime, Peter ha dimostrato che un brano può essere riscritto cento volte quando è fatto di percussioni, suoni sintetici e alchimie computerizzate, ma se si tratta di vera lirica, non serve alcuna manipolazione e può bastare la prima versione, come quella scritta in mezzora in una magica sera del 1976 sulla collina di Solsbury Hill.

Rimane, inoltre, la delusione per aver risentito arrangiamenti sin troppo vissuti, e la sensazione di un apparato ritmico ingombrante, con un Tony Levin troppo presente e due chitarre sacrificate: il tutto a soffocare la liricità dell’artista, sommerso da campionature e suoni industriali anni ’80: anni della massima espressione dei vari David Rhodes, Tony Levin & C, e che Peter continua a portarsi dietro, nonostante la musica di oggi sia tornata all’acustico, dopo le cascate alluvionali di note pianistiche di Tori Amos, gli arrangiamenti sospesi tra il folk e l’hip hop di Ani di Franco, le rivisitazioni acustiche tra jazz del Delta e blues internazionale di Cassandra Wilson: artisti, questi, che hanno reinterpretato il concetto stesso di world music lanciato da Gabriel. E rimane, pure, sia consentito dirlo, il timore che il nostro eterno idolo, pur restando saldamente nei nostri cuori, abbia definitivamente smarrito quella magica ispirazione che gli consentiva di comporre liriche mai più raggiunte, come “Anyway”, “The Lamia” e “Cinema Show”.

Giuseppe Basile © Geophonìe

 

 

Roger Waters 10.05.2002,  Assago (Mi), Filaforum

01.Roger Waters (10.05.2002, Assago (Milano), Filaforum)Non sono stati pochi quelli che inizialmente hanno storto il naso durante il concerto milanese di Roger Waters, ma col senno di poi avranno senz’altro riconosciuto di non aver compreso pienamente la performance. Siamo abituati a vedere i Pink Floyd calati in un palco gigantesco, dove i singoli musicisti quasi scompaiono. Nei concerti dei Pink Floyd sembra che sia una macchina a suonare, in una perfezione fredda e irreale. Anche i brani sembrano perdere la propria individualità, assomigliando ad un’unica sinfonia divisa in varie parti.

Il concerto di Waters sulle prime ci ha spiazzato perché è stato concepito in modo diverso. L’assenza di tecnologie e strutture sceniche elefantiache rende necessaria la presenza di un front man vero, diversamente dai concerti del gruppo, in cui la presenza di Gilmour era molto discreta, e in certi momenti appariva persino non necessaria: protagonista era soltanto la musica, nella perfezione assoluta delle sonorità, accompagnata da quelle scenografie grandiose che contribuivano a realizzare quel senso di “musica siderale” tipico del gruppo.
Lo show di Roger Waters non poteva ricalcare questi schemi. Waters voleva ripercorrere la sua carriera interpretando (anche) il periodo dei Pink Floyd nella “forma canzone”, come in un recital. Quando è entrato sul palco ed è salito sul corridoio rialzato alle spalle degli strumentisti abbiamo visto un musicista che senza tanti fronzoli estetici e scenografici, in fondo ridotti al minimo indispensabile, ma pur sempre suggestivi, sembrava volesse dire: “ho diritto anch’io di cantare le mie canzoni”. E nel far questo lo faceva calandosi nel ruolo inevitabile e inedito di front man del palco, forse anche con un certo imbarazzo, ma comunque in modo onesto, con semplicità e serenità.

Il concerto, quindi, ha preso una piega diversa da quella che ciascuno di noi immaginava. E’ stato un concerto suonato da umani, non da macchine governate da musicisti invisibili e imperturbabili. E in questo aspetto il concerto ha trovato la sua unicità.
Waters sulle prime appare persino un po’ goffo nel dover fare qualche “mossa” da palco – alla Jimmy Page e Robert Plant – brandendo il suo basso con un po’ di esibizionismo a cui non siamo abituati.
Gli strumentisti in alcuni momenti suonano con mano pesante; l’attacco di “Shine on you crazy diamond” e di “Wish you where here” fa storcere il naso ai puristi più intransigenti (quelli che proibirebbero ogni minima variante alle versioni insuperabili e sacre del disco); la voce di Waters viene supportata nei toni più alti da quella delle coriste e del chitarrista, denotando così un deficit che i fans non accettano e che fanno fatica a dover ammettere: ma sono aspetti tipici di un concerto suonato da esseri umani, e che per questo danno allo show una inaspettata dose di poeticità. Roger Waters, specie all’inizio, fa quasi tenerezza nel suo sforzo di rivendicare la paternità creativa di quei capolavori e di metterli in scena in un modo diverso (ma in fondo, poi, non troppo diverso, almeno musicalmente) dai modelli tradizionali.

I brani, a veder bene, sono sempre quelli, anche se spogliati dal costume tronfio, ingombrante e faraonico dell’epopea pinkfloydiana. Dopo l’entrata necessariamente caciarona e autocelebrativa di “In The Flesh” e “Another Brick in The Wall”, Waters procede inesorabilmente, nonostante tutto, e dimostrando che le critiche sono solo miseri dettagli, a fronte di sì tanta grandezza. Col momento acustico di “Mother” il pubblico si ravvede e improvvisamente capisce che cosa significa sentir cantare un brano del genere dalla voce dolce e unica al mondo di Waters, con una intensità e un’onestà artistica che Gilmour non può aver mai avuto. Ma l’unicità del concerto la si percepisce appieno non appena Roger intona “Pigs On The Wings” e “Dogs”, perle di quell’ “Animals” che i Floyd non hanno mai portato in scena e che la voce dell’interprete originario, unico e solo, rende luminose come non mai. Si avverte un primo momento di autentica commozione che si propaga nel pubblico dopo i fasti iniziali dello show. Calati ormai nella logica del concerto, i fans cominciano a rilassarsi e a farsi trasportare dalle atmosfere psichedeliche di “Set The Controls For The Heart Of The Sun”, tratto da “A Saucerful Of Secrets”, il secondo album dei Floyd, brano assolutamente inatteso, ma che doveva esserci, a testimonianza di un momento creativo irripetibile vissuto in quel lontano 1968. Il brano, infatti, suona attualissimo, come se fosse una composizione degli Spiritualized di oggi o dei tanti gruppi post psichedelici di questi anni.

Il concerto prende la piega giusta e Waters appare sereno e molto umano, anche nel concedersi al pubblico, col quale sembra voler creare uno scambio reciproco di emozioni di cui forse sentiva da tempo la mancanza. Si procede con “Breathe (In The Air)”, “On The Run” e “Time” , necessariamente ridimensionate nelle lunghe entrate che le caratterizzavano in “The Dark Side On The Moon”. “Shine On You Crazy Diamond”, “Wish You Where Here”, “Welcome To The Machine”, “Money”, seguono una dopo l’altra portando il pubblico tra le stelle, seppure con quella diversità e maggiore semplicità rispetto ai canoni tradizionali che ha caratterizzato tutto il concerto. Ma non ha più importanza cercare il pelo nell’uovo nelle esecuzioni non sempre impeccabili, se dotate comunque di tanta suggestione e intensità: è un concerto di emozioni forti, trasmesse da un uomo che si fa amare anche per i suoi limiti di oggi, e che anzi, forse per questo recupera una dose di simpatia e affetto negatagli dopo la scissione col gruppo. Il Roger Waters pazzo, nevrotico, antipatico, prevaricatore nelle scelte del suo ex gruppo, il musicista dipinto come l’anima fondamentale ma comunque distruttrice del gruppo, sembra completamente scomparso. Per la prima volta i fans gli perdonano di aver distrutto il sogno dei Pink Floyd, responsabilità pesante che per anni gli è stata addossata e che gli si addebita tuttora, oscurandolo immeritatamente.

L’approccio umano di stasera restituisce dignità ad un artista che candidamente vuole solo dimostrare l’universalità di quelle canzoni e ritrovare la felicità di suonarle. E’ questo approccio inedito, sorprendentemente “felice” alla sua musica, a rendergli finalmente giustizia. Grazie al ritrovato feeling col pubblico Waters può adesso permettersi perfino di riproporre altri brani della sua carriera, tutti splendidi, dolci e toccanti, dimostrando la sua purezza di artista e di compositore. Anche questa seconda parte dello show offre al pubblico l’occasione per rendersi conto che sta assistendo ad un evento difficilmente ripetibile. Addirittura ora Waters riesce perfino a dare dei punti ai suoi ex compagni, che mai sono stati capaci di comporre qualcosa di nuovo veramente valido, nonostante i mezzi illimitati di cui hanno potuto disporre e le produzioni stratosferiche costruite attorno a “The Momentary Lapse of Reason” e “The Division Bell”, dischi deboli, appena dignitosi, e comunque considerati pur sempre “dischi del dopo”. E’ il momento di “Perfect Sense”, “The Bravery Of Being Out Of Range”, “It’s A Miracle” e “Amused To Death”, brani passati inosservati nel decennio che ha visto la colpevolizzazione di Waters e che oggi ritrovano luce e respiro (anche con la nota antologia di recente pubblicazione).

Il finale non può che essere apoteotico, con una “Eclipse” impeccabile, una “Brain Damage” commovente e una conclusiva “Comfortably Numb” giustamente rumorosa, retorica e autocelebrativa (ma con un pubblico ormai in fiamme non poteva essere diversa).
Il bis richiesto è l’inedito “Flickering Flame”, giusto finale dolce e acustico per riequilibrare un concerto così carico di emotività, e per sedare gli animi.

I fans hanno visto forse per la prima volta Roger Waters sorridere, e andare esultante a raccogliere applausi sino agli angoli più remoti del palco, così tradendo quella serietà obbligatoria che si leggeva perennemente sui volti dei vari Gilmour, Wright e soci, imposta dalla gravità delle note liriche pinkfloydiane. Concerto imperdibile.

Giuseppe Basile © Geophonìe